Lowell George: il rock and roll doctor, cantautore con la slide dalla vita breve

In quel formidabile collettivo di personalità individuali che sono i Little Feat, Lowell George ha avuto indubbiamente un ruolo importante di leader, almeno finché è durata la sua breve vita. Dopo la sua morte precoce nel 1979, quando già desiderava abbracciare la carriera solista, il gruppo, anziché sfaldarsi (ci misero comunque nove anni a superare la perdita), si è ricompattato proseguendo su una strada che è giunta ai giorni nostri. Un po’ come è avvenuto con altre grandi band come Allman Brothers e Lynyrd Skynyrd, capaci di continuare la carriera nonostante tragedie che avrebbero messo a tappeto chiunque.

Ma questa è la storia di Lowell Thomas George, devastante suonatore di slide guitar e autore prolifico, cantante incisivo e bandleader cazzuto. Era nato a Hollywood il 13 aprile 1945, a undici anni se la cavava bene già con la chitarra slide che cominciò a suonare con uno svitacandele in luogo del solito collo di bottiglia o cilindro d’acciaio per un incidente occorsogli ad una mano mentre trafficava con un aereo radiocomandato. Il suo primo gruppo furono i Factory, prodotti da Frank Zappa (con il futuro feat Ritchie Hayward alla batteria) e poi venne il garage rock degli Standells, finché Zappa non lo portò con se nelle Mothers of Invention

Con le Mothers incise due album nel 1970, Burnt Weeny Sandwich e Weasels Ripped My Flesh finché Zappa ne decise l’allontanamento, secondo la leggenda per questi motivi. Uno è che Lowell avrebbe presentato a Zappa il suo brano Willin’ e questi, notato il talento, gli avrebbe risposto: “Bene, è ora che formi un gruppo per conto tuo”. Un altro è che Frank non sopportava riferimenti alle droghe e Willin’ ne conteneva. Il terzo è che George avesse suonato un assolo di 15 minuti con l’amplificatore spento.

Fatto sta che Lowell prese alla lettera l’indicazione e con il bassista Roy Estrada, altro transfuga dai Mothers, Hayward inventivo batterista specializzato in tempi dispari e il talentuoso tastierista e session man Bill Payne, fondò i Little Feat.

Pare sia stato Jimmy Carl Black dei Mothers a dare l’ispirazione per il nome sbottando in un “Damn those little feet!”, dannazione a quei piedini, riferendosi al formato mini delle estremità di Lowell, peraltro large nel resto del corpo. Una storpiatina, come nel caso dei Led Zeppelin ed il gioco era fatto.

Il Little Feat incisero il primo album omonimo nel 1970. Riprendevano in parte la lezione della follia zappiana, in un contesto più regolare dominato da un grande amore per il blues e il funk. Un suono fedele alle radici bianche, come quello di The Band, ma nero nell’anima ritmica. Il disco conteneva Willin’, canzone d’amore per i camionisti ma, ironia della sorte, in quel periodo George si era infortunato ad una mano e la chitarra fu incisa da Ry Cooder.

Il disco ebbe giudizi favorevoli dalla critica ma non dal pubblico al pari del successivo Sailin’Shoes che conteneva una Willin’ reincisa da George. Estrada lasciò il gruppo per unirsi alla Captain Beefheart Magic Band e al suo posto arrivò Kenny Gradney insieme al percussionista Sam Clayton e al chitarrista e cantante Paul Barrere. Dixie Chicken, uscito nel 1973 e primo interamente prodotto da Lowell, spostava le coordinare sonore in direzione di New Orleans e conquistava fan illustri come i Rolling Stones (Mick Taylor suonò anche in concerto con loro, in Apolitical Blues dove si può avere un saggio della voce bluesy di George)e i Led Zeppelin, affascinati dal quel suono ibrido, avvolgente e potente.

I Little Feat giunsero ad un certo successo, grazie anche a esibizioni live devastanti e memorabili che definirono il concetto di jam band. Ma Lowell, chitarrista eccezionale nei duelli con Barrere, cantante dalla voce grintosa che sapeva farsi delicata, amico del cuore di Jackson Browne, coltivava ambizioni solistiche e nel 1979 incise il suo primo e unico album, dal titolo “zappiano”. Thank’s I’ll Eat it Here.

Nella copertina un sornione e rasato Lowell (con i Feat aveva sempre avuto la barba lunga e vestiva una tutina bianca che lo conteneva a stento) ammicca davanti ad una rivisitazione del celebre Le dejeuner su l’erbe di Eduard Manet con Bob Dylan, Fidel Castro e Marlene Dietrich nei panni di Lola Lola del film l’Angelo Azzurro davanti a una copia di Howl di Allen Ginsberg. Già dalla cove,r la dichiarazione di intenti di una musica che oscilla tra i Feat di Dixie Chicken (da cui riprende Two Trains) il New Orleans sound di Allen Toussaint (What Do You Want the Girls to Do), cover di Jimmy Webb (Himmler’s Ring), Ann Peebles (I Can’t Stand The Rain) e Rickie Lee Jones (Easy Money) e – caso raro per un album solista – solo tre canzoni da lui scritte, tra altro in collaborazione: Honest Man (con Fred Tackett che poi entrò nei Feat), Cheek to Cheek (con Van Dyke Parks e Martin Kibbee che era con lui nei Factory) e Twenty Million Things (con Jed Levy). Nell’album suonano ospiti come Bonnie Raitt, Nicky Hopkins, i Toto quasi al completo e gli amici Hayward e Payne.

Solo l’anno prima era uscito Waiting for Columbus dei Little Feat, l’ album dal vivo che tutti dovrebbero avere, forse il live definitivo degli anni settanta che documenta la straordinaria attitudine del gruppo sul palco. Grandi solisti al servizio di una musica collettiva, una solida base rock blues ricca che mescolava country, boogie, folk, soul, progressive e jazz. E infatti verso la fusion andava la direzione del gruppo, come dimostra l’ultimo album con George, Time Loves a Hero che contiene lo strumentale jazz-rock A Day at the Races. Una svolta che Lowell non condivideva e che causò i primi attriti con il gruppo.

Ad inasprire la situazione c’era anche la sua forte dipendenza dalle droghe, che finì purtroppo col risultargli fatale. Durante una tappa del tour di promozione di Thanks Lowell George fu trovato morto nella sua stanza d’albergo ad Arlington, Virginia, per un attacco cardiaco al quale non erano estranei il peso (era arrivato a 120 kg), il consumo di droga e le fatiche della vita on the road.

Con lui se ne andava una delle menti musicalmente più brillanti della sua generazione, la stessa di Bruce Springsteen e Jackson Browne, Neil Young e James Taylor. Loro sono arrivati fino a noi, la strada di George invece si è bruscamente interrotta a soli 34 anni, quando molto avrebbe potuto ancora dare.

La sua figura resta determinante nell’evoluzione della scena musicale della West Coast alla metà degli anni Settanta. I Little Feat non hanno quasi mai raggiunto il successo di massa, ma hanno goduto e godono del rispetto della critica, degli altri musicisti e di un culto affezionato. Quanto a George, resta quell’unico e prezioso album, oltre naturalmente alla capacità compositiva dimostrata nei lavori prodotti con il gruppo. Probabilmente sarebbe rimasto a disagio negli anni Ottanta dominati da tastiere ed elettronica, lui che apparteneva così decisamente al decennio precedente. Ma dato che il suo tempo si è fermato al 1979, manca la controprova.

Jackson Browne gli ha dedicato la sua Of Missing Persons, Christopher Cross il suo grande successo Ride Like the Wind. Anche lui, come molti prima e dopo, adesso corre nel vento.

ascolti

  • Little Feat – Dixie Chicken (1973)
  • Little Feat – The Last Record Album (1975)
  • Little Feat – Time Loves a Hero (1977)
  • Little Feat – Waiting for Columbus (1978)
  • Thanks I’ll Eat it Here (1979)

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