Neil Young è uno degli artisti fondamentali della storia del rock. Capace come pochi altri di alternare melodie delicate e sfuriate elettriche, emulo di Bob Dylan agli inizi e poi capace di superare il maestro, autore di pietre miliari e dischi evitabili, prolifico all’eccesso soprattutto negli ultimi anni, una personalità incredibile sviluppata in mezzo ad avversità di ogni genere, hippy miliardario e protettore dichiarato del pianeta Terra, oltre che promotore di iniziative per buone cause: The Bridge School Benefit contro la distrofia musicale (che ha colpito il figlio Zeke) e Farm Aid a favore degli agricoltori minacciati dalla crisi. Impegnato in battaglie per la qualità della musica riprodotta (Pono) e l’auto ecologica (LincVolt) così come per i diritti dei Nativi Americani.
L’uomo ha segnato con la sua musica lo scorrere del tempo da Woodstock ad oggi, cavalcando le varie ondate sonore, sperimentando e favorendo altri artisti. E’ un maestro riconosciuto, padrino del grunge, del noise e di certa post-wave, indie ante litteram, chitarrista dal sound unico e abile orchestratore di congreghe musicali. Pur rimanendo, fondamentalmente, un solitario. The Loner, appunto.
Neil Percival Young viene al mondo il 12 novembre 1945 a Toronto, in Canada. E’ figlio di Scott, giornalista sportivo e di Edna Blow Ragland detta “Rassy”, di origini francesi: I primi anni di vita li trascorre a Omemee, paesino a 130 km dalla città e da bambino contrae la poliomelite che lo costringe ad un periodo di isolamento. Ha dodici anni quando i genitori si separano, segue la madre a Winnipeg, nel Manitoba dove comincia a formare gruppi di garage rock e ad interessarsi al country folk. Il suo brano preferito, che gettona ossessivamente nel jukebox è Four Strong Winds di Ian e Sylvia Tyson. E’a Winnipeg che scrive Sugar Mountain, la sua prima canzone che resterà nel cassetto per più di vent’anni.
Nel 1965 fonda The Squires e successivamente i Mynah Byrds con Rick James che diventerà famoso molto più tardi di lui come re del funky ma, appena prima di registrare il disco, viene arrestato per renitenza alla leva. A quel punto, insieme all’amico bassista Bruce Palmer, Neil si trasferisce illegalmente a Los Angeles, ma riceverà la green card solo nel 1970 e deciderà di restare comunque canadese ancora fino al 2020.
In California incontra Stephen Stills e Ritchie Furay che hanno appena lasciato gli Au Go-Go Singers e vorrebbero formare un gruppo folk-rock sul modello dei Byrds. Con Palmer e il batterista Dewey Martin nascono i Buffalo Springfield. Insieme a loro Young pubblicherà due album (Buffalo Springfield, 1966 e Again, 1967) ma al terzo (Last Time Around, 1968) ha già lasciato il gruppo per dissapori interni.
Il carattere non facile e solitario, la convinzione di fare altra musica, l’atteggiamento critico nei confronti dello show business lo portano ad incidere già nel 1968 il primo album omonimo da solista che risente in parte dell’influenza Buffalo, ma rivela la sua personalità in brani come The Loner, The Old Laughing Lady e soprattutto The Last Trip To Tulsa, lunga cavalcata acustica su un testo ermetico.
Poi forma i Crazy Horse insieme al chitarrista e cantante Danny Whitten, il batterista Ralph Molina e il bassista Billy Talbot (basso). Con loro incide il secondo album, quasi totalmente elettrico, Everybody Knows This is Nowhere (1969). Nel frattempo ha anche raggiunto Stills, David Crosby e Graham Nash nel supergruppo CSN&Y che si è esibito con successo a Woodstock ancora prima di registrare il primo album Dejà Vu (1970), una delle loro pietre miliari.
Ma Young è insoddisfatto di come l’apporto creativo viene distribuito tra i quattro, si allontana dal gruppo, anche se andrà ancora con loro nella trionfale tournéé per gli stadi del 1974 e poi per sporadiche reunion più avanti. Pubblica After the Gold Rush (1970), un altro capolavoro con un giovanissimo Nils Lofgren, questa volta in maggior equilibrio tra acustico ed elettricità. L’album è favorevolmente accolto da pubblico e critica, ma il vero successo arriva con Harvest (1972) che schizza al numero uno in classifica, con il singolo Heart of Gold, per la prima ed unica volta.
Ma deve affrontare una doppia tragedia. Prima Danny Whitten (18 novembre 1972) e poi il roadie Bruce Berry (4 giugno 1973) muoiono per overdose. Young è devastato dalla perdita, si rifugia nella musica e nell’alcool. Incide nel 1973, contro il parere della casa discografica, un album dal vivo di soli inediti, sporco e zoppicante come Time Fades Away, quanto di più anticommerciale si possa immaginare per una star arrivata al successo con Harvest.
Inizia un periodo buio, che però si risolve creativamente nella cosidetta “trilogia del dolore” completata da dischi come il bellissimo On The Beach (1974), in bilico tra depressione ed estatico smarrimento, e Tonight’s The Night, risultato di lugubri nottate dal vivo (con materiale del ‘73, ancora vivo Whitten) e in studio a ricordare il passato. Neil sembra perso dietro ai suoi fantasmi e alla bottiglia, ma saprà reagire.
L’album della riscossa è Zuma (1975) che contiene forse il pezzo perfetto, Cortez the Killer, critica al colonialismo europeo che ha distrutto la civiltà americana originaria, argomento che sarà sempre caro al nostro. In una miscela calibrata di ruvido country rock, blues e delicati momenti acustici, Young offre il meglio di sé con i fedeli Crazy Horse e Frank Sampedro che sostituisce egregiamente Whitten nel ruolo. Vocalmente Neil è in gran forma mentre all’elettrica si conferma degno erede di Jimi Hendrix.
Di lì a poco riprende anche l’antico sodalizio con Steve. La Stills-Young Band incide il riuscito Long May You Run (1976) dove i due si dividono equamente i pezzi, in un ritrovato equilibrio, con ottimi musicisti. Ma, ancora una volta, Young non resiste e pianta in asso tutti nel pieno del tour promozionale, adducendo problemi di gola. Ne approfitterà per compilare il triplo Decade (1976) che riassume i primi dieci anni di carriera.
Comincia un periodo contradditorio, nel corso del quale Young resterà comunque molto prolifico, anche se molti pezzi rimarranno in archivio per parecchi anni, tra indecisioni e ripensamenti. Esce nel 1977 American Stars & Bars che inizialmente doveva chiamarsi Chrome Dreams o Homegrown. Un buon disco, guidato dalla cavalcata elettrica di Like a Hurricane, storia di amore persa nel vento con una chitarra lancinante e incisiva, ma ancora troppo discontinuo.
Nel frattempo, il ‘77 ha portato l’ondata punk e dopo il country elegante di Comes a Time (1978) Neil vi sale sopra, con Rust Never Sleeps che esce nel 1979, disorienta i fan dello Young bucolico con l’hardcore di Sedan Delivery e Welfare Mothers, li recupera con qualche melodia e la più “tradizionale”, stupenda, Powderfinger. Il disco viene promosso con una tournée insieme ai Crazy Horse (documentata nel doppio Live Rust) e addirittura un film che arriva in Europa alimentando la sua fama di cavaliere elettrico e folkman acustico, da lui stesso diretto sotto lo pseudonimo di Bernard Shakey.
Siamo agli anni Ottanta, per Young irrequieti e imprevedibili. Nel quasi campestre Hawks & Doves (1980) riprende strade country-rock collaudate e intimismo da focolare. Il successivo Re-ac-tor (1981) è uno shock elettrico, rombante come un aereo al decollo e quasi noise in certi episodi. Ma il vero shock, per i fans della prima ora, arriva con Trans (1982) dove Neil si mette a flirtare con elettronica e vocoder per cantare la “computer age” contemporanea, ispirato dai Devo. E infine, nel 1983, ecco Everybody’s Rocking, omaggio al rockabilly che riesce ancora a disorientare tutti.
L’anno dopo si torna al country con Old Ways, ma nel 1986 Neil perde anche gli ultimi fedeli rimasti con Landing on Water, elettronico e discontinuo, dove canta la fine del sogno in Hippie Dream utilizzando troppe drum machines e riverberi.
E’ finita? Nemmeno per sogno. Life (1987) segna quasi un ritorno alla normalità ma, a parte una gemma come Inca Queen, è ancora frammentario. Poi nel 1988 arriva This Note’s For You dove Neil mette insieme una big band stile Blues Brothers per un bel disco carico di r&b e soul, con un gioiellino intimista come Coupe De Ville.
La decade dello sgomento si chiude per fortuna, alla grande, nel 1989 con Freedom che lo riconsegna alla ragione, grazie a pezzi come Rockin’In the Free World, Eldorado e Crime in the City.
Nel 1990 Ragged Glory lo vede ancora sgroppare insieme ai Crazy Horse in un album di rugginoso e vitale hard rock, ribadito dal live elettrico Weld (1991), documento di un tour insieme a Sonic Youth e Social Distortion.
Harvest Moon (1992) riprende antiche delicatezze, nel ventennale del bestseller, seguito da un Unplugged (1993). Ma siamo in epoca grunge, nel 1994 muore Kurt Cobain (ispirato dal canadese al punto da lasciare la sua frase “è meglio bruciare che svanire lentamente” nel biglietto trovato dopo il suicidio) e Young, dolorosamente colpito, lo celebra in un album oscuro come Sleep With Angels. Neil è in fondo il padre riconosciuto del genere, stima i Pearl Jam e li condurrà con sé in tour e poi in un album come Mirror Ball (1995) dove però Eddie Vedder è ridotto a fare il corista.
Da qui in poi, Neil Young alternerà prove confortanti e dischi francamente rinunciabili. La sua discografia diventa un labirinto nel quale è facile perdersi. Il periodo di migliore creatività artistica è stato indubbiamente tra il 1970 e il 1979 e infatti di recente sono usciti dischi come gli “abortiti” Homegrown e Chrome Dreams a confermarlo. Ultimamente, infatti, ha deciso di spalancare – prima gratis e poi a pagamento – i suoi immensi archivi, caricati on line in un’operazione che non ha precedenti ed estraendone periodicamente sia gemme che ciottoli.
Comunque lo si consideri oggi, Neil Young resta una figura cardine in più di mezzo secolo di rock oltre che un poeta romantico ma non sentimentale, disincantato ma non cinico, protagonista di impennate improvvise e discese rovinose. Un saliscendi che ha comunque segnato in modo indelebile la storia della musica che amiamo.
Seguirlo nelle sue peripezie, in tutti questi anni, è stato un hobby affascinante, anche se per star dietro ad una discografia in inesorabile e costante aumento (time fades away?) bisogna possedere un portafoglio illimitato.
Neil Young ha tracciato la strada a molti, da Nick Cave ai Pearl Jam, dai Flaming Lips ai Dinosaur Jr, venendo spesso citato come riferimento. Ha inoltre saputo, come quasi nessun altro, alternare l’elettricità del rock alle armonie delicate del country e del folk, rappresentando un ponte tra i vari generi e stimolandoci ad apprezzarli.
Anche solo per questo gli si dovrebbe rispetto, considerazione e simpatia. Poi, ci sono grandissimi dischi, che resteranno per sempre. E che adoriamo.
E’ notizia recente che, dopo aver annullato alcune tappe del tour con i Crazy Horse per motivi di salute, Neil è di nuovo on the road con una nuova band, i Chrome Hearts (con membri dei POTR e il tastierista Spooner Oldham) e sta per suonare insieme all’amico Stephen Stills. Attendiamo fiduciosi il bisonte che corre ancora, a quasi 79 anni.
(la foto di Neil Young 2023 è di Giorgio Baratto, appassionato globetrotter e fotografo che si ringrazia per la preziosa collaborazione e condivisione, dal 1992)
ascolti
- Buffalo Springfield – Again (1967)
- Everybody Knows This is Nowhere (1969)
- After The Gold Rush (1970)
- On The Beach (1974)
- Zuma (1975)
- Freedom (1989)
- Ragged Glory (1990)
- Homegrown (2022)
- Chrome Dreams (2023)
parole
- Ivano Gladimiro Casamonti – Neil Young (1981)
- Neil Young – Il sogno di un hippie (2015)
- Marco Denti – Neil Young. Walk Like a Giant (2021)
- Matt Briar – Neil Young. Cercando il nuovo mondo (2021)
visioni
- Rust Never Sleeps, di Bernard Shakey (1979)
- Year of The Horse, di Jim Jarmusch (1997)
- Neil Young: Heart of Gold, di Jonathan Demme (2006)