E’ la notte delle voci, a La Prima Estate, Lido di Camaiore. E che voci. Strepitose quelle di Paolo Nutini, headliner e di Michael Kiwanuka (ma si sapeva), sorprendenti invece quelle dei sei giovani inglesi Black Country, New Road. Aprono con canti aggraziati e melodici, due bravissime soliste e preziose armonizzazioni, un folk che si tinge di prog leggero, voli strumentali e profusione di strumenti: fisarmonica, violino, sax, banjo. Piccola estasi, inaspettata. Da seguire con attenzione.
Michael Kiwanuka sale sul palco quando è ancora chiaro ed è subito soul prezioso ed avvolgente, negli intrecci con i cori, nelle linee ritmiche Motown. Kiwanuka è in possesso di una voce mirabile che ricorda a tratti grandi come Marvin Gaye (per tematiche sociali e molto di più Otis Redding, Gil Scott-Heron e Donny Hathaway, ci attendiamo da un momento all’altro che parta The Ghetto. Ma così non sarà.
A suo agio completo nel soul funk che ha radici lontane, piace meno quando si avventura nel pop, pur sempre raffinato. Rilassato, a suo agio sul palco con una band che lo segue dappertutto, tre coristi formidabili (due donne e un uomo), alterna chitarra e prophet, in un suono che riporta l’anima indietro nel tempo e comunque la spinge avanti, vellutato e pieno di groove. Kiwanuka si muove nel solco della tradizione, interpretandola e aggiornandola ai tempi, la musica spinge alla danza, a tratti ipnotica, a tratti ritmicamente irresistibile.
E poi, ecco Paolo Nutini. Quasi un’apparizione sul palco per le moltitudini che lo attendevano spasmodicamente. Voce potente e lirica, ritmo e armonia coltivate nell’ascolto di soul e r&b, trasfigurate in una musica dominata da un gioco di tastiere ed elettronica che a volte sembra quasi un djset. Ma Paolo è un ragazzo del Duemila, si abbevera a fonti dancefloor mancuniane anni Novanta (Happy Mondays e Charlatans) spinge sull’acceleratore e rallenta, mentre la folla va in delirio.
Si parte in quarta con Afterneath e Scream (Funk My Life Up) in versione accelerata, alternando potenza electro-funk (tracce di Simple Minds, del resto scozzesi come lui, anche se lui apprezza i Krisma e li infila in coda ad un pezzo) e melodie delicatissime. Paolo imbraccia la chitarra, accenna il pezzo con la sua voce suggestiva e la band parte, per attitudine sembra un Bruce Springsteen con qualche decina di anni in meno, quando arpeggia tra corde di nylon e vocali ricorda le morbidezze di James Taylor. Il gruppo è solido e compatto (spiccano un pluritastierista ubiquo e un chitarrista che maneggia bene anche il sax baritono), la matrice soul si sposa con l’elettronica ben dosata in un r&b futuribile e anche quando vira sul pop, sono impressionanti la qualità e l’eleganza della sua voce.
Pubblico in stragrande maggioranza femminile, conosce a menadito le parole delle canzoni (che toccano temi importanti come la pace e la disuguaglianza sociale, non solo l’amour), rapito ed entusiasta. Non può mancare New Shoes, il pezzo swingante e allegro che lo lanciò in classifica. Concerto che arriva rapidamente al suo acme con Iron Sky, lancinante grido d’amore contro l’odio, ribadito dalle parole di Charlie Chaplin da Il Grande Dittatore che echeggiano. Richiamato più volte sul palco, Paolo Nutini non si sottrae all’abbraccio avvolgente della folla, pare emozionato e scosso dall’accoglienza davvero calorosa.
Il nonno è nato a Barga, distante una sessantina di chilometri, stessa provincia. E Paolo ringrazia i genitori e la sorella Francesca , in uno stentato e coraggioso italiano letto da un foglio. “Quando erano giovani, i miei venivano in questo parco ad ascoltare Mina, Ray Charles, James Brown e altri alla Bussola. Sono particolarmente felice, cinquant’anni dopo, di essere davanti a loro a cantare con voi”. Con voi è proprio il termine esatto perché, dall’inizio alla fine, belle voci femminili tra il pubblico si sono intrecciate alla sua, dimostrando che, non a torto, siamo la nazione del bel canto. Paolo Nutini chiude degnamente una notte così piena di voci da toccare il cuore anche del rocker più incallito.