Se c’è una band grandiosa uscita dagli anni Settanta che non ha ottenuto quello che meritava, signore e signori ecco a voi i Little Feat. Gruppo composto da musicisti straordinari, cervelli fini dai “piccoli piedi”, strepitosi dal vivo. California che incontra New Orleans e genera una musica non di genere ma che li comprende tutti: rock, blues, boogie, funk, country, progressive e pure jazz rock fusi in un calderone ribollente. Non bastò ai nostri per sfondare (infatti i loro migliori guadagni vennero dal suonare su altri dischi) ma consegnò all’immortalità il genio di Lowell George, andatosene molto presto e consentì loro di giungere impavidi alle soglie del terzo millennio, deliziando folle di astanti soprattutto in Jamaica, dove fumare il fumabile è sempre consentito.
I Little Feat nascono da un’idea di Lowell George che fu cacciato dalle Mothers of Invention di Frank Zappa e invece di piangersi addosso formò un suo gruppo con un altro transfuga zappiano, Roy Estrada, il batterista Ritchie Hayward che era stato con lui nei Factory, e il tastierista virtuoso/session man Billy Payne. La Willin’ rifiutata da Zappa, canzone d’amore per camionisti che guidano per migliaia di miglia infarciti di droga, divenne il cardine di un primo album omonimo, intriso di blues e folk esplosivo. Successo? Vicino allo zero, malgrado le pacche sulle spalle della critica. Il disco vende solo undicimila copie, Estrada deluso sbatte la porta e se ne va. Da Captain Beefheart.
E’una sliding door. Ancora una volta George non si perde d’animo, recluta Sam Clayton alle percussioni e Kenny Gradney al basso, ma soprattutto il cantante, compositore e chitarrista Paul Barrere e riaccende la miccia. Sailin’ Shoes (1972) porta la musica della band in nuove direzioni, verso il suono caldo e rilassato di New Orleans. Ma anche in questo caso non vende un granché.
Andrà meglio con Dixie Chicken (1973), lavoro più compiuto e compatto dove spicca il brano omonimo con il suoi tempi dispari che diventerà un cavallo di battaglia del gruppo unendosi a Tripe Face Boogie in una cavalcata di quasi venti minuti attraverso i generi, toccando il southern rock e il dixieland, il blues elettrico e il rock and roll jazzato.
Incoraggiato da fans illustri come i Rolling Stones e i Led Zeppelin, il gruppo diventa una gioiosa macchina da guerra dal vivo che trascina il pubblico in un maelstrom di duelli chitarristici e tastiere a cascata, polifonia gospel e vibrazioni funk. Escono nel frattempo Feats Don’t Fail Me Now (1974) che è un tentativo di riprodurre in studio le sgroppate live e The Last Record Album (1975), il disco più funky che si sposta verso atmosfere jazz-rock.
Ma è con il live Waiting for Columbus che esce nel 1977 una documentazione fedele delle prodigiose peripezie live dei Feat, straordinario collettivo di musicisti che non indugia in assoli ma si pone al servizio della musica. E che musica! Nel disco c’è Mick Taylor che suona Apolitical Blues, in diversi brani la sezione fiati dei Tower of Power e non manca l’epica Willin’.
L’album è criticato dai puristi perché frutto di diversi rattoppi e sovraincisioni in studio, ma rende perfettamente l’idea di cosa doveva essere un live show del gruppo in quel periodo d’oro. Il livello di entusiasmo del pubblico è già sancito dal boato che accoglie la band dopo la presentazione sul palco (F-E-A-T!) prima di lanciarsi in Fat Man in the Bathtub e viaggiare tra i personaggi disegnati da George, adagiati su un tappeto sonoro irresistibile. Due ore di musica che lasciano stravolti e deliziati. Invidia e rimpianto per non esserci stati.
Intanto George, irritato per la crescente smania jazz-fusion di Payne assecondata dagli altri soci, sta prendendo le distanze dalla band. Il suo ultimo album col gruppo sarà Time Loves a Hero del 1977 che trabocca di funk jazz in un periodo in cui tutto intorno sembra punk. Comincia ad incidere alcune tracce vocali per il successivo Down on The Farm (che uscirà a lui postumo nel 1979) per poi concentrarsi sul suo primo ed unico album solista, Thanks, I’ll Eat Here. Ma dietro la curva, durante il tour promozionale, lo attende la morte per attacco cardiaco.
Dopo la prematura scomparsa di George, il gruppo si scioglie e ci metterà nove anni per tornare in pista. Lowell non si può sostituire, ma nell’ingrato ruolo viene chiamato il cantante Craig Fuller che il gruppo aveva apprezzato nei Pure Prairie League. Non c’è audizione, semplicemente gli dicono che hanno bisogno di lui. Ed è tutto. Con Fuller e il polistrumentista Fred Tackett (chitarra, mandolino, tromba) incideranno subito Let it Roll che diventa un successo (sempre relativo, non stiamo parlando dei Queen o degli Eagles, ma comunque arriva il disco d’oro) con la sua rotolante title track, apprezzatissima dai bikers. E altri due dischi, tenendo concerti dovunque li chiamino, finché, stremato dalla vita on the road (che già aveva contribuito alla dipartita di George e forse temendone le conseguenze), Fuller dice che ne ha abbastanza, ritorna alla trascurata famiglia, si dedica alla propria carriera solista ma continua a collaborare con i Feat.
Arriverà al suo posto, nel 1993, Shaun Murphy. Con lui il tono diventa ancora più rilassato, laid-back e i nuovi brani si prestano maggiormente alle improvvisazioni. Ma i dischi non entusiasmano i fan della prima ora e nemmeno della seconda, anche se la band continuerà a tenere i suoi leggendari concerti fino alle soglie del terzo millennio
I Little Feat hanno inciso il loro ultimo album, Rooster Rag, nel 2012. Nel frattempo se ne era andato Ritchie Hayward nel 2010 e la successiva morte anche di Paul Barrere nel 2019 sembrava aver messo la parola fine alla storia del gruppo. Ma, quasi a sorpresa, ripescato Tackett e ingaggiati il cantante e chitarrista Scott Sharrard e il batterista Tony Leone la ditta è stata rimessa in piedi nell 2022 dai tre veterani Payne, Clayton e Gradney con un tour che ha celebrato i 45 anni di Waiting for Columbus, riproponendolo integralmente in concerto. Sono nella leggenda, ma non ancora pronti ad entrarci, a quanto pare.
Le ultime notizie parlano di un album in uscita nell’aprile del 2024, preceduto dal singolo You’ll Be Mine.
La loro musica è stata interpretata da artisti come Robert Palmer, Randy Newman, Jackson Browne, Linda Ronstadt, The Byrds, Nicolette Larson e, in tempi più recenti, Black Crowes. Le copertine dei loro album, disegnate a partire da Sailin Shoes da Neon Park, sono autentiche opere d’arte, con un immaginario psichedelico e surreale fatto di torte, scarpette, papere e pomodorine sexy, citazioni di persone famose, paesaggi onirici. Ironico, coloratissimo e divertente, specchio fedele della loro musica.
Quello dei Little Feat è un mondo musicale variegato e affascinante che comprende in se quasi tutti i generi conosciuti. Una volta entrato, non vorrai più uscirne.
ascolti
- Dixie Chicken (1973)
- The Last Record Album (1975)
- Time Loves a Hero (1977)
- Waiting for Columbus (1979)
- Let It Roll (1988)
- Under the Radar (1998)