Denis Campitelli recita Nadiani in “Fat Jazz”: storie come assolo, una lingua che vive

E’un jazz di parole, quello praticato dall’attore Denis Campitelli, illuminato da una splendida “blue moon”, alla suggestiva Rocca di Meldola (FC), in chiusura della rassegna Castelli di Carta organizzata dall’attivissimo Giancarlo Dini. Fat Jazz come jazz grasso, appunto, ma anche fatti di jazz che l’interprete racconta in lingua romagnola. E non c’è niente da capire, ci si deve far solo rapire da questo fiume verbale che scorre ora lento, ora veloce, fatto di mille rivoli e affluenti, che ti cattura con la musicalità del suono anche se intendi la mezza di quel che Campitelli dice. Ma il significato arriva, eccome.

Il funambolico Campitelli dà voce alle poesie e ai racconti del romagnolo Giovanni Nadiani (1954-2016) che narra di vite vissute consapevole che “se il popolo non deve dimenticare i suoi poeti, i poeti non devono dimenticare il popolo”. E la lingua è quella della gente, impastata nel quotidiano, che diventa rap e onomatopea, pioggia che cade e luce al neon che illumina volti dimenticati, mentre alle spalle del raccontattore la luna fa il suo dovere.

Campitelli racconta, e tu stai ad ascoltare. Come se fossi l’avventore esterno in un osteria, che capita lì per caso e sente le storie che si snodano, si intrecciano. Si racconta del Fòrmica (con l’accento sulla o, trattasi del materiale di cui erano fatti i tavoli, e questo l’hai capito, mentre non hai capito perché lui si chiami così, ma non fa niente), che ha lavorato all’Enel ma prima ha fatto il ‘68, le barricate, il libero amore. Prima di mettere la testa a posto, raffreddando il sangue romagnolo sotto i consigli paterni per evitare che diventassero paternali. Che ha conosciuto un po’ il mondo e poi è tornato qui, al paese, da dove non si è mai staccato, diventando parte dell’arredamento urbano.

Nadiani, traduttore e germanista, era appassionato a lingue minoritarie come il gaelico e Campitelli racconta di una lingua che gli inglesi “hanno portato via agli irlandesi”, lasciandogli però l’Irish Pub che sia chiama così dappertutto, da Meldola a Friedrischafen, da Strasburgo a Barcellona. Birra, e sai cosa bevi e Campitelli la tracanna mentre spiega alla moglie al pub perché lui, “l’italiano” non lo vuole proprio parlare. E’ legato alla sua lingua, che è la sua vita, i suoi nervi e le sue ossa.

Una galleria di persone e fatti, legati e slegati, che si intrecciano in un flusso narrativo dove ad un certo punto il romagnolo assume le cadenze del rap e qui – proprio – non capisci più assolutamente cosa Denis stia dicendo, mentre gli astanti che sanno si divertono parecchio – ma rimani soggiogato da questo fluire ritmico di suoni, dal battito vitale delle parole. Che diventa onomatopea pura in un brano in cui si toccano vette di poesia ed emozione quando Denis spiega che agli anziani in preda all’Alzheimer, a mò di terapia, si pratica il ricorso alle parole familiari, per ridestare la memoria che se ne va. E tic e toc e gocce di poggia che cadono e gente che bussa alla porta e scioglilingua che manco provarci a trovare il significato, se non ti ci vuoi perdere.

Spettacolo divertente ed istruttivo, terminato tra scrosci di applausi e richiamate in scena, che ribadisce la necessità di conservare radici personali in un mondo sempre più spersonalizzante. Mi piace l’idea di richiamare la memoria con le parole, aggrapparsi a questa ancora di salvezza prima di scivolare nell’oblio. Grande musica addobba le parole, dall’iniziale Almost Blue di Chet Baker alla finale Dirty Old Town dei Pogues, appropriata per parlare di pub. Un lavoro di recupero sincero ed interessante, quello praticato da Campitelli sull’opera di un poeta popolare di cui ora viene voglia di andare a cercare i libri.

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