Lasciate fare a mister Robert Plant. Senza rinnegare il glorioso passato con i Led Zeppelin, vi trasporterà in una musica nuova eppure antica, inseguendo suggestioni tra folk e blues delle radici, trasmettendo emozioni forti. Così è stato a Bologna (e in altre città italiane) in un Europauditorium pieno come un uovo per il suo progetto Saving Grace. Concerto superbo per misura, intelligenza musicale, divertimento e qualità sonora, pari a quella di un cd audio, grazie anche all’ottima acustica del teatro.
Si parte con il banjo di Matt Worley (ma dove andrà a prenderli, questi musicisti?) che sembra un sitar e poi sfocia nel traditional The Cuckoo Bird e quindi nel blues primigenio, dondolante, di Let The Four Wind Blows. Al primo brano sono già applausi a scena aperta per un collettivo intento a produrre musica senza divismi. Suzi Dian, cantante e strumentista che asseconda Plant e si prende ogni tanto la scena solista, Oli Jefferson macchina da ritmo e Worley (che sfodera pure una bella voce) con Tony Kelsey a tessere il tutto grazie ad una serie impressionante di chitarre ben assestate, in sintonia con le percussioni. Niente basso, se non quello imbracciato da Suzi in un brano. E Robert si diverte: “Grande essere tornati qui. Non ci sono mai stato? Fa niente, è bello lo stesso”. L’accoglienza bolognese è caldissima, ma anche attenta a recepire quello che Plant propone, senza richieste inutili.
Così lui riparte con una Four Sticks rivisitata in chiave folk che esaudisce tacitamente le aspettative, seguita dallo spiritual Jesus On The Mainline reso celebre da Ry Cooder. E la folla è già in visibilio, sedotta da un suono insolito di questi tempi che non raggiungerà mai il rumore, ma riuscirà a trasportarci per pub e castelli, brughiere e porti senza ripercorrere strade note. Suzi canta melodiosa Orphan Girl della cantautrice Gillian Welch. Robert, lontano dall’immagine dell’angelo biondo dalla voce potente degli Zepps, sembra oggi un corpulento professore di inglese un po’ hippy, evita saggiamente i timbri più alti ma la voce ne guadagna in profondità, come dimostrano Win My Train Fare Home e Everybody’s Song, canzone che risale addirittura al secolo decimo ottavo. Spesso lascia il palco agli altri, si ritira a suonare l’armonica nel buio come uno dei cinque. Grande anche in questo.
The Rain Song sgocciola pura bellezza sugli astanti, privata di quell’eccesso di archi che un po’ infastidiva nell’originale e restituita alla sua melodia ammaliante con la fisarmonica “parigina” di Suzi a duettare con le chitarre. It’s a Beautiful Day dei Moby Grape riporta alla California degli anni Sessanta, così come la bomba, sganciata per l’occasione, di Season of the Witch (in realtà opera dello scozzese Donovan), brano immortale, ipnotico, psichedelico e folk in cui Suzi che ondeggia a ritmo sembra Stevie Nicks ai tempi d’oro dei Fleetwood Mac e si infilano le note di For What It’s Worth dei Buffalo Springfield . Ma prima c’era stato il bell’omaggio a Neil Young con For The Turnstiles da On The Beach, due voci e tanti brividi. Si conclude in crescendo con una Friends anche questa riletta e imbevuta di quei suoni orientali che aveva già sul terzo disco dei Led Zeppelin, il primo in cui l’amato folk prendeva campo sull’hard rock degli inizi. Boato.
Nel bis, richiesto sommessamente, quasi di prammatica, il folk trascinante di Gallows Pole (1970) condotto da banjo e mandolino riserva citazioni zeppeliniane di Heartbreaker e Black Dog ,versi immortali che funzionano anche in un contesto differente. E poi i cinque insieme a cappella, con la partecipazione del pubblico, augurano la buonanotte con And We Bid You Goodnight. That’s all, folks!.
Si esce nella notte bolognese, soddisfatti e felici, ancora permeati di good vibrations. Senza la voglia di ascoltare niente altro.