Gli anni Sessanta secondo Walter Veltroni. Un decennio di allegria e grandi speranze, di boom economico ma anche di grandi tragedie e disillusioni. Dall’ottimismo per la rinascita dalle macerie dei bombardamenti alle bombe di piazza Fontana, il settantenne Walter ha raccontato per due sere al Teatro Celebrazioni di Bologna le “Emozioni che abbiamo vissuto” passando per i contrasti e le contraddizioni di una decade sicuramente importante per la nostra storia recente. Accanto a lui un ventenne, il pianista Gabriele Rossi, giovane che quegli anni non li ha vissuti e forse li ha sentiti solo mitizzare, accompagna la narrazione al pianoforte perché,come dice Veltroni: “La musica è la più potente madeleine che abbiamo a disposizione”
E allora via ai ricordi, sull’onda di brani come “Musetto” (1956) di Domenico Modugno scritta da lui ma non cantata (lo fece il dimenticatissimo Gianni Marzocchi) al festival di Sanremo. Il 1956 è un anno cruciale per Veltroni perché è quello della morte del padre Vittorio, giornalista e funzionario Rai (portò in Italia Mike Bongiorno e scoprì Sergio Zavoli) quando lui aveva un anno. Una condizione di orfano che, forse, lo preservò dal successivo conflitto generazionale del Sessantotto, a differenza di compagni di scuola presi a cinghiate dal padre “a scopo preventivo”. Poi vengono canzoni come “Sapore di sale” (“che riassume mirabilmente il concetto di estate, stagione di desideri e calore”), “Il cielo in una stanza”, “Non arrossire”, tra Gino Paoli e Giorgio Gaber che rompono con l’era della canzonetta, annunciando quella dei cantautori. Luigi Tenco si suicida nel 1967 a Sanremo e in qualche modo la sua morte segna la fine di un rinnovamento: a vincere saranno Claudio Villa e Iva Zanicchi con “Non pensare a me”, il ritorno del vecchio sul nuovo. Ma poi arriverà gente come Lucio Battisti e Lucio Dalla a cambiare le carte in tavola.
Gli anni Sessanta portano i padri a confronto con i figli, nasce la categoria dei “giovani” che prima non esisteva, attraverso il rock and roll dei Beatles e dei Rolling Stones. Si passava dall’infanzia all’età adulta e via. Invece quel decennio fa riconoscere come tali i giovani di tutto il mondo che si ribellano, a cominciare dal taglio dei capelli per arrivare alle manifestazioni di piazza. Gli anni Sessanta sono favolosi e terribili, passano per le grandi speranze su JFK iniziate nel 1960 e terminano bruscamente con l’assassinio di Dallas. Poi verranno quelli di Martin Luher King, paladino dei diritti civili dei neri e di Robert Kennedy, nel 1968. E la tesi veltroniana è che senza la morte di Robert, presidente in pectore, non ci sarebbero stati il Vietnam, il Watergate e il golpe cileno. “La storia del mondo sarebbe radicalmente cambiata”. Purtroppo, non ne abbiamo la prova.
Veltroni racconta pacatamente e con garbo, stura la bottiglia dei ricordi, ricorrendo a filmati d’epoca, oggetti trovati in un baule. E’ un rievocatore emozionale che sfoglia il catalogo della memoria come un album di figurine, da Alberto Sordi a Pierpaolo Pasolini. Malgrado il suo passato politico importante non trasforma – per fortuna – il tutto in un comizio, anche se in platea c’è tutto il gotha del Pd emiliano: il sindaco Matteo Lepore, il presidente della Regione Michele De Pascale e il suo predecessore Stefano Bonacini. Ci sono ogni tanto degli accenni all’utopia comunista trasformatasi in dittatura altrove e da noi in disastro politico. “L’unica volta che l’Unione Sovietica mi è stata simpatica è quando hanno mandato Gagarin nello spazio. Nel 1968, anche se avevo solo tredici anni avevo capito da che parte stare durante la primavera di Praga”. E sullo schermo compare Ian Palach che si autoimmolò per essere libero, come pochi hanno avuto il coraggio di fare. Un simbolo.
Tra un settantenne che racconta e un ventenne che suona, la media è cinquanta, ma è molto più alta l’età del pubblico che ha riempito la sala. Siamo in stragrande maggioranza gente che era ragazzina o giovane in quegli anni. Forse, il limite dello spettacolo è non saper raggiungere i ventenni di oggi o forse ai ventenni non gliene frega proprio niente. Ma il narratore è efficace, suscita emozioni e ricordi, sorrisi e commozione. Un esperto che conosce la materia per averla vissuta e sa trasmettere la voglia di ricercare, approfondire, capire. Lo spettacolo si chiude sul faccione sorridente di Lucio Dalla, tra applausi e ovazioni, alla ricerca del tempo perduto e che quasi sicuramente non tornerà, Formidabili, davvero, quegli anni.
(foto di Ilaria Vidaletti)