Marc Ribot : a Bologna Jazz Festival l’eloquenza chitarristica di un maestro dello strumento

L’eloquenza chitarristica. Marc Ribot, nell’ultimo concerto di Bologna Jazz Festival, parla pochissimo ma lascia che sia il suo strumento a farlo per lui. Siamo al venticinquesimo piano della Torre Unipol di via Larga e l’altezza offre il giusto punto di elevazione alla musica, come se ci trovassimo in un grattacielo della sua New York. Marc è abbracciato alla chitarra acustica, affonda il viso nell’incavo dello strumento perché usa la cassa come amplificatore minimo della voce, canticchia in un sommesso scat per accompagnare le note. Che prima vengono fuori sparse, disseminate, rarefatte, sghembe con impervie vibrazioni atonali e rapide scorrerie sulla tastiera. Come molti artisti contemporanei, usa la sua formidabile tecnica per decostruire paesaggi armonici noti, scomporre la musica in scansioni estemporanee.

Ma poi sgorga improvvisa la melodia, gli accordi tornano a ricomporsi ed è pura magia, che affascina e coinvolge l’udito. Ribot passa con noncuranza da armonie classiche ad antichi blues polverosi, punteggiati di uno swing che sembra innato ed è invece frutto di lungo studio sullo strumento. Ha suonato con gente come John Zorn e Tom Waits (da Rain Dogs a Bad as Me, definendone il nuovo corso musicale), Robert Plant e Caetano Veloso, Mike Patton e Diana Krall, in Italia con Vinicio Capossela. La sua grande espressività travalica ogni confine di genere, per produrre un suono onnivoro e sempre imprevedibile. Decostruzione e ricostruzione dell’armonia si alterneranno nella serata come in un gioco intelligente. Dal vivo Ribot è un’esperienza sonora unica e lui inanella note con nonchalance, lasciando e riprendendo i temi.

Alla sue spalle di settantatrenne si vedono le ombre di musicisti di cui raccoglie l’eredità nel tempo: Charley Patton e Louis Armstrong (di cui propone una St.Louis Blues resa irriconoscibile per gli arrangiamenti), Django Reinhardt e Charlie Christian, Bert Jansch e John Renbourn. Ribot è un maestro riconosciuto e un caposcuola indiscutibile, eppure si esibisce con l’umiltà di un esordiente, ringrazia ad ogni applauso e mostra riconoscenza all’organizzatore Vito Mecci che gli ha prestato la sua chitarra per questa sera. “Suona anche meglio della mia, che mi sono dimenticato a casa”.

Saranno le uniche parole di una serata magica, con Ribot che suona a due mani percorrendo la tastiera, si accompagna ritmicamente percuotendo la cassa, usa plettro e dita indistintamente tra pennate vigorose e delicati arpeggi. Una serata da raccontare ai nipoti, mentre venticinque piani più sotto scorre silenzioso il traffico della tangenziale, l’attenzione è tutta avvinta dall’uomo con i capelli bianchi e gli occhiali che suona la chitarra in modo magistrale, richiamando atmosfere perdute nella Babele di suoni contemporanea. Limpido come solo Django sapeva essere, poetico e inventivo, sfuggente e definito. Alla fine si alza e se ne va, viene richiamato sul palco per un breve, pleonastico bis. Ci ha dispensato grande musica per un’ ora e mezza, poteva bastare. Ma si sa come vanno queste cose.

Stanotte se ne è andato un altro grande chitarrista come Jimmy Villotti, anche lui maestro di swing, ma ancora non lo sappiamo, mentre l’ascensore ci porta volando giù dal grattacielo.

Ti potrebbe interessare