Nel giorno in cui Porretta Terme (BO) diventa Soulville a tutti gli effetti, gemellandosi con Memphis, il festival omonimo ospita una grande esibizione di Andrew Strong. Sì, proprio il Deco di The Commitments (tra i migliori film musicali, 1991), dimagrito rispetto alla versione corpulenta sullo schermo e scattante sul palco insieme ai bravissimi musicisti di The Memphis Hall of Fame. Una magnifica dozzina che interpreta con passione e capacità strumentali i brani topici della soul music, in una serata di piacevole divertimento al Rufus Thomas Park, sotto le stelle.
Sono con questa trentasette le edizioni del Soul Festival nato nel 1988 dall’entusiasmo e dalla tenacia di Graziano Uliani (con il placet della famiglia di Otis Redding) che è riuscito a portare in Appennino negli anni gente come lo stesso Rufus con Carla, Solomon Burke, Chaka Khan, Mavis Staples, Wilson Pickett, i Memphis Horns, Sam Moore e Percy Sledge. Scusate se è poco.

Il compito di scaldare la platea tocca a John Nemeth e ai suoi Blue Dreamers, cappellaccio in testa ed armonica in bocca, con una voce rough e un r&b tinto di country rock. Efficaci, appassionati ed energici quanto poco conosciuti, almeno in Italia, propongono roots music stile The Band venata di soul e funk, prendendosi i primi applausi.
Poi, dopo un breve intervento dei sindaci di Alto Reno e Memphis, ecco Andrew Strong. Voce forte come il suo cognome, grande presenza scenica, mette subito le carte in tavola con Hard To Handle, scritta da Otis e ripresa anche dai Black Crowes: “Baby here I am, I’m the man on the scene”. Alle sue spalle la Memphis HoF, band formidabile con due tastiere, sezione di tre fiati e tre coriste che lo accompagna in questa soul ride. Ci saranno, in fila Take Me To The River di Al Green, Mustang Sally un’accorata Dark End of The Street in cui Andrew dimostra le sue capacità vocali, la Feelin’Alright dei Traffic in versione Joe Cocker, con gran lavorio di tastiere.

La gente sugli spalti balla sin dal primo brano, è una bella notte di luglio e la musica sale alta nel cielo, favorita da un ottimo impianto audio. Fosse sempre così. L’acme viene raggiunta con Try A Little Tenderness, altro cavallo di battaglia di Redding con cui conquistò il pubblico rock di Monterey nel 1967 prima della sua repentina scomparsa, parte sussurrata e poi esplode in un tripudio di fiati. Strong, passati ormai a miglior vita tutti i grandi del soul (solo Al Green resiste, ma non canta più) a cinquant’anni si pone come credibile erede di un genere amatissimo.
Ma la vera sorpresa della serata, per noi, è stata Al Kapeezi, soul rapper che arriva sul palco scortato da due Blues Brothers (giunti a bordo dell’autentica Bluesmobile del film) come un criminale ammanettato (Al Kapone) e fonde mirabilmente hip hop e r&b in un sound contemporaneo. Scandisce le parole da freestyler, non su basi registrate ma insieme ad una vera band, rinnova la Thrill is Gone di BB King con cadenze rap, innesta vigorose dosi di soul funk e duetta con la corista delle Jewels scatenata in Rock Me Baby, alternando rap e blues. Se un genere come il soul colpisce generazioni più recenti (e lui lo è stato da Otis e Isaac Hayes) ciò dimostra la vitalità di una musica che ha radici negli anni cinquanta e sessanta ma continua ad essere ben presente. Ben vengano operazioni di questo tipo in un panorama dominato da suoni plastificati, ripetitivi e a tratti anche idioti.
Sia lunga vita al soul, grazie anche ad una rassegna come PSF, quattro serate di grande musica in un’ atmosfera accogliente che ti fa sentire a casa, come ho sottolineato in un breve intervento dagli amici di Radio Frequenza Appennino.
