Joe Cocker è un ragazzo con una maglietta stinta che, agitandosi come un epilettico, trasforma una canzone dei Beatles in un gospel blues da brividi sul palco di Woodstock. L’ho incontrato così, nel film memorabile di Michael Wadleigh del 1970, un po’ in ritardo sui tempi (1977 o giù di lì), ammirandone la capacità di impadronirsi del brano, piegarlo alle sue esigenze canore, entrare “dentro” il pezzo. With a little Help From My Friends cantata dalla voce nasale di Ringo Starr non mi aveva colpito più di tanto, sembrava una filastrocca un po’ scipita. Con Joe era tutta un’altra storia. Intro solenne di organo hammond, tocchi lancinanti di chitarra (sul disco, quella di Jimmy Page) e poi quando entra la sua voce, davvero non ce n’è più per nessuno.
Il “Do you need anybody? I need someone to love” diventa un urlo lacerante come quello dei vecchi blues, alternato al sapiente uso del falsettone, il coro “I’ll get by with a little help from my friends” infonde cadenze gospel e fa vibrare l’anima. La canzone scanzonata si trasforma in inno sacro, la celebrazione, in un rito collettivo officiato davanti a una folla percossa e attonita, dell’amicizia e dell’amore che sono alla base di un testo diventato più epocale per questa versione che per l’originale di Lennon&McCartney.
Joe Cocker è stato soprattutto un interprete strepitoso di musica altrui, come Elvis Presley. La sua Feelin’Alright rotola meglio di quella dei Traffic, non dimostra gli anni che sono più di quaranta. Sensazionale la sua She Came In Thru The Bathroom Window (ancora Beatles) del 1970 che in Italia fu la sigla di un bel programma tv come Avventura. In quell’anno venne anche al Vigorelli di Milano con il tour Mad Dogs & Englishmen insieme a Leon Russell di cui portò al successo Delta Lady. Ha fatto canzoni memorabili e dischi interi meno (mi trovo infatti un po’ in difficoltà a consigliare album), ma è sicuramente stato, fino ad età avanzata, uno dei più straordinari cantanti e performer della storia del rock.
Nato John Robert il 20 maggio 1944 a Sheffield, Joe ha avuto una lunga carriera tra alti e bassi, caratterizzata da tuffi nell’alcool e colpi improvvisi di reni. Come nel 1986, quando rispunta fuori a sorpresa con il successo strepitoso di Nove e settimane e mezzo quando la You Can Leave Your Hat On di Randy Newman diventa colonna sonora dello strip di Kim Basinger in favore di Mickey Rourke. In sostanza: “Togliti tutto quello che vuoi, ma puoi lasciare il cappello”, che ispirò poi il noto spot pubblicitario della Breil. La voce di Cocker è sensuale e strepitosa, roca e potente, vanamente imitata. Così come lo era stata quattro anni prima, in duetto con Jennifer Warnes nella zuccherosa Up Where We Belong (dal film Ufficiale e gentiluomo) a cui Cocker infonde dignità di ballad.
Dal vivo, Cocker è stato una forza (Unchain my Heart, diceva il suo grande successo del 1987) fino agli ultimi anni, il 22 dicembre saranno sei che se n’è andato. Andate a vedervi questo concerto su You Tube in cui, malgrado capelli bianchi sempre più radi e pancetta, sfodera una voce all’altezza dei bei tempi. L’ultima sua immagine è ancora cinematografica: Joe, nei panni di un barbone- predicatore da strada-pappa, apostrofa i passanti (e salva la vita di uno dei protagonisti) con una ruvida Come Together in Across the Universe, film a soggetto del 2007 di Julie Taymor costruito sulle più belle canzoni dei Fab Four. Il leone di Sheffield ruggisce ancora alla gente, sbranando un brano dei Beatles come all’inizio. Piace ricordarlo così.
A quando un film sulla sua vita tra tormento ed estasi musicale?
Paolo Redaelli
Ascolti
With a Little Help from my Friends (1969)
Joe Cocker! (1969)
Mad Dogs&Englishmen (live, 1970)
Cocker (1986)
Visioni
Woodstock, di Michael Wadleigh (1970)
Nove settimane e mezzo, di Adrian Lyne (1986)
Across The Universe, di Julie Taymor (2007)
Joe Cocker- Mad Dog with Soul, di John Edginton (Sky Arte, 2019)
Parole
J.P Bean – Joe Cocker. The Authorised Biography (2004)