Baustelle – Il senso politico di “Amen”

Di questo album si è già ampiamente parlato e detto praticamente tutto: ”E’ un disco sulla civiltà occidentale moderna”“Un disco post-moderno che sprona ad alzare la testa dal fango. Volenti o nolenti, credenti o miscredenti, apocalittici o integrati.”; “Un disco che spinge chi lo canta con occhio critico, cinico, e cattivo a guardare per reazione (o disperazione?) verso l’alto, verso un altro, verso un altrove.”
Infine, come di rito, si è attraversato anche tutta quella serie di balletti critici su musica e testo. Balletti che però in questo momento ci permettiamo di mettere da parte. Ciò che a noi preme, ciò che più ci interessa è far emergere con quanta più chiarezza quella fibra, quella forza essenziale ed a tratti primitiva che ha reso quest’album ciò che è. Le linea guida che si intrecciano nel corso del opera sono più o meno le stesse che si trovano nei tre dischi precedenti. Potendole riassumere in una parola direi “Chansonnier”. Ne “La Malavita”, a differenza dei due dischi che lo precedono, lo chansonnier si avvicina ai più classici. Formali, con meno tentativi di sperimentazione. Più lineari e con una nota politica più marcata ed esplicita.

L’esempio perfetto lo si trova ne “La guerra è finita”, “I provinciali” oppure ne “Il corvo Joe”. In questi brani ciò che intendo per senso politico si esplicita con una certa forza seppur non ancora del tutto scoperta e siglata. Per chiarire meglio di cosa si sta parlando, intendo il “senso politico” alla Pasolini, senso che trova la sua più vitale espressione nel  parteggiare. Parteggiare in ogni istante, con ogni singola parola per tutto ciò che è e rappresenta l’uomo. Ed è questo spirito rabbioso di fronte al tutto, di fronte all’oggi ed alle sue ingiustizie, ancora germoglio ne “La Malavita”, a raggiungere la sua più completa maturità in “Amen” attraverso un’assoluta e radicale presa di posizione ed assunzione di responsabilità verso di sé e verso gli altri che supera la semplice critica e si trasfigura in schietta nudità.

Questa nudità abbozzata nel “La Malavita” diventa il manifesto del nuovo disco. E’ il coro ironico di “Colombo”, il ritmo sotterraneo di “Panico!”. Riesce a declinare l’abc della tragedia moderna ne “Il liberismo ha i giorni contati” e dopo aver attraversato malinconicamente “Alfredo”“L’uomo del secolo” s’incazza di brutto nello “Spaghetti Western”.

Non è del tutto corretto ora parlare solo ed esclusivamente di un tendere verso l’alto, verso l’altrove. In “Atropophagus”, raffigurazione canterina e macabra dell’eterno ritorno nietzschiano è evidente l’assoluta assenza di speranza che diventa sentenza.  In “Andarsene così” invece sì, si anela ad un altrove, verso l’alto ma è l’io a tendere rimanendo sempre alle soglie del sogno o dell’incubo. In conclusione ciò che, per quanto mi riguarda, rappresenta appieno lo spirito  di“ Amen” è la canzone “Baudelaire”. Il tendere al quale si fa costantemente riferimento nel brano è esplicitamente invito a restare. Tutte le canzoni citate ne fanno da corollario seppur assolutamente indipendenti. La crudezza e crudeltà di musica e testo, le citazioni di Pasolini, Baudelaire, Saffo, Socrate non fanno altro che rafforzare il senso profondo di quanto in precedenza detto palesando il suo limite più estremo, il sacrificio. Ciò che rimane infine è l’atto e la sua capacità di restare.

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