The Who e l’ultimo concerto di Milano: the Song is really Over?

Sentimenti contrastanti, assistendo all’ultimo (?) concerto degli Who al Parco della Musica di Milano. Forte la sensazione di tribute band di se stessi, per un gruppo creativamente fermo da decenni. Grande ammirazione per la forza che due ottantenni come Pete Townshend e Roger Daltrey dimostrano nel salire su un palco alle dieci di sera e sciorinare un’ora e mezza di musica stupenda. Townshend è stato un creatore di capolavori assoluti (tre opere rock e molto altro), forse il miglior compositore nella storia della nostra musica, visto che abbina suoni formidabili e testi poetici e ficcanti. Daltrey conserva una voce potente, anche se si tiene lontano prudenzialmente dai toni acuti e riesce comunque a sfoderare un do di petto, accolto da ovazioni.

Pelle d’oca (mugelìn, dicono qui) quando il pubblico, senza inviti, esplode nello “yeeeeh” finale di Won’t get Fooled Again, confortante vedere tra i presenti diverse generation non solo la my. Conferma che Who’s Next (album di scarti del 1971, ma che scarti, quelli di Lifehouse) resta il miglior pozzo a cui attingere e infatti i nostri ne cavano Behind Blue Eyes, sempre meravigliosa, ma anche gemme meno note come Bargain e Love Ain’t for Keeping.

Si inizia puntuali alle ventidue, con I Can’t Explain dedicata all’appena defunto Ozzy Osbourne e la gente già esplode. Poi arriveranno tutte le hit in fila, tappe di una carriera sessantennale tra cui spiccano Substitute, The Seeker, Who Are You e naturalmente non può mancare My Generation, inno all’insoddisfazione giovanile e punk ante litteram. E’ bellissimo ascoltare una carrellata di masterpiece del genere, con il lavorio di fratel Simon Townshend che tiene su tutta la baracca, l’energia del nuovo drummer Scott Devours che si innesta bene nel sound del gruppo, il basso di Jon Button che segue tracce entwistliane. Townshend senior non salta più, ma gratta la chitarra mulinando, la pizzica dolcemente e in modo quasi jazzistico in una splendida versione di 5:15 che rinuncia ai fiati tonanti.

Gli Who non prendono fiato, vanno avanti nella scaletta. Unico brano più recente è Eminence Front (1982), il resto viene preso a piene mani da Tommy (una Pinball Wizard meno dinamica del solito, See Me) e Quadrophenia (The Real Me, I’m One, I’ve Had Enough, Love Reign o’er Me), pietre miliari di un sentiero della gloria. Buone vibrazioni, perché su quel palco c’è un pezzo di storia, poco importa se a volte si impappinano e Daltrey (voce sorretta da un back singer nei punti critici) sbaglia qualche entrata, si va avanti nello show, riassunto di una carriera memorabile. Roger, classe 1944, riesce anche a roteare (con prudenza) il microfono, fa quasi tenerezza. Pete, classe 1945, è sempre un chitarrista formidabile, anche se il gioco di voci tra i due che ha reso celebre il gruppo a volte si incrina.

Poche storie. Hai davanti The Who mica paglia e, visto che tutti i concerti prima di questo li hai mancati, è l’occasione buona da cogliere. E se hai negli occhi le immagini roboanti di Woodstock o di Leeds o di Shepperton, li chiudi e la sensazione resta bellissima. C’è tutto quello che volevi sentire (tranne Magic Bus e I Can See For Miles, ma non si può avere tutto) e che li rappresenta. Concludere un concerto con la sequenza micidiale Baba o’ Riley/Won’t Get Fooled Again/The Song is Over (sempre da Who’s Next) non lascia spazio – per fortuna – ad alcuna forma di bis. Teenage Wasteland, meet the new boss same as the old boss e la canzone è finita, rimangono gocce nell’aria che forse sono lacrime e se non sbagliamo il rude Townshend ha avuto un momento di commozione. That’s all, folks e mentre si sciama verso i parcheggi pensi che alla fine eri più stanco tu sessantacinquenne, tre ore in piedi in mezzo alle zanzare e altre due di auto da fare, piuttosto che quei due ottantenni sul palco. Per l’ultima volta? Who knows?

(la foto principale è di Luca Parmiggiani)

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