Prima che sia tardi, almeno una volta. Selezione di Paolo Redaelli.
1987
U2
The Joshua Tree
Prima della vergognosa decadenza odierna, un album magnifico con quattro anime impegnate nel produrre grande musica tra ragione e sentimento, orgoglio e pregiudizio. Oggi mi risultano antipatici anche in fotografia.
La signora del Canyon in delizioso equilibrio tra jazz e pop in un album elegante e frammentario. Si va da Buddy Holly a Wayne Shorter, passando per James Taylor e Leonard Cohen, ospiti reali ed immaginari di un disco assolutamente riuscito.
Suprema espressione del vocalese coltivato da quattro singer eccezionali, pescando gemme tra Weather Report e Tom Waits, sigle tv e cinema, paradisi tropicali e giungla urbana. Ai confini della realtà.
Coordinate musicali tra James Brown e Jimi Hendrix, Sly Stone e Miles Davis. Il folletto di Minneapolis libera tutta la sua creatività in un doppio album ricco di influenze che codifica il suono più cosmopolita ed eccitante degli anni Ottanta
Con il divin bassista Jaco Pastorius sempre più protagonista, Joe Zawinul e Wayne Shorter si spostano sempre più dal jazz rock originario verso una world music scattante e raffinata. Tre mostri di tecnica al servizio di un suono meraviglioso, mai più eguagliato.
La televisione raccontata dai Tubi (catodici) di Fee Waldo Waybill, esperti in parodie di sapore zappiano. Il folle potere che il (tele)comando ha su di noi in un album concept assolutamente da riscoprire, pazzo e saggio, ricco di musica eccitante.
La voce nasale, romantica e potente di John Hiatt, uno dei grandi misconosciuti. Con un piccolo aiuto da parte dell’amico Ry Cooder, un suono unico ed evocativo tra radici folk, blues, schitarrate rock ben assestante e soprattutto grandi canzoni
Guidati dalla tromba ronzante di Jon Hassell, le Teste Parlanti si addentrano nella giungla del beat africano, selva di ritmo e percussioni, chitarre abrasive e nenie indimenticabili. C’è lo zampino di Eno e si sente. Irrinunciabile, almeno una volta nella vita. Ma anche di più.
La scoperta del mondo nuovo della new wave. Elettronica e voci meccaniche, ma anche ritmo e anima. Quando tutti noi pensavamo che il futuro sarebbero stati solo synth e drum machines.
Insieme a Brian Eno e Robert Fripp, a Berlino, il Duca Bianco inventa gli anni Ottanta con tre di anticipo. Pop elegante, elettronica e sintetizzatori, atmosfere cupe e momenti di lirca bellezza per tracciare una strada che saranno in molti a seguire.
Album da ascoltare soprattutto in viaggio, per assecondarne la spinta il movimento. All’esordio Vedder e soci esprimono urgenza ed energia grunge, muscoli e dolcezze, in un suono coeso e potente che difficilmente ritroveranno nei dischi seguenti
Acid jazz ante litteram in un doppio disco ricco di soul, swing e pure jazz poetry. Dagli anni Ottanta a oggi, non fa una piega. Assolutamente impermeabile al tempo che scorre e sempre affascinante.
Un cuscino surrealista su cui appoggiare sogni hippy di pace e amore libero, ma anche visioni lisergiche e acide ironie, le armonie uniche di tre voci. Sotto lo sguardo benevolo del Coniglio Bianco, mentre Alice è alta nel cielo.
Non sono le aquile da superclassifica, c’è ancora Bernie Leadon in un album bello e frammentario che fonde country, tributa Tom Waits (allora sconosciuto) e James Dean, contiene ballate superbe e scorrerie da desperados.
Un po’ come gli Allman filtrati dai Led Zeppelin e dal punk. Chris Robinson e compagnia sfornano un album di gospel-rock genuino e sincero, affilando le chitarre e attingendo sia alla black music che all’hard rock. Potente e senza cedimenti.