L’intrico sonoro degli Irreversible Entanglements: jazz poetry, free, improvvisazione e impegno

Seguire gli Irreversible Entanglements (intrico, ma anche confusione, complicazione irreversibile) in concerto è abbandonarsi ad un flusso di emozioni forti, sorrette da un jazz heavy e contemporaneo, scattante e scintillante con non pochi riferimenti al passato. Così al Locomotiv di Bologna per Express Festival la band americana affascina un pubblico di giovani e meno con il loro groviglio sonoro. L’arrivo di Moor Mother, al secolo Camaya Ayewa viene preparato dai due fiatisti Aquiles Navarro (tromba) e Keir Neuringer (sax) che smanettano con potenziometri e conchiglie su un palco imbandito di percussioni creando gradualmente un muro di suono quasi noise.

Poi ecco la poetessa di Philadelphia declamare “The healing power of the Universe”, il potere guaritore dell’Universo come una Patti Smith più giovane e arrabbiata, sulle tracce di Amiri Baraka che si chiamava Leroy Jones e poi scelse un nome africano come altri. La musica, invece, conduce dalle parti degli esperimenti di Art Ensemble of Chicago e Sun Ra (ma anche dei Rage Against the Machine senza chitarra, nel modo in cui Camaya apostrofa e aizza il pubblico), un free jazz innervato di elettronica e percussioni, dalle cadenze funk e hip-hop, punteggiato dall’onnipresente, agile batteria di Tcheser Holmes e dal sapiente contrabbasso di Luke Stewart.

L’effetto è una musica ipnotica, pulsante, libera e coinvolgente, che fa da tappeto volante alla poesia di Camaya che soffia nel microfono parole di consapevolezza e di lotta, in un fluire di parole e suoni che colpisce. Ma ci invita anche a “proteggere la nostra luce”, Protect Your Light come da titolo dell’ultimo album per la Impulse dei quattro finora pubblicati dal 2017 ad oggi.

Più che un concerto, una performance senza soluzione di continuità che richiede ai musicisti notevole dispendio di energia. Il sax alto e la tromba veleggiano senza sosta sulla base ritmica e quando stridono sembrano sirene mentre Moor Mother annuncia che “la guerra è dentro di noi e dobbiamo combatterla”, paragonando i combattimenti esterni a cui purtroppo stiamo assistendo ai conflitti interni, coinvolgendo razza e religione, affermando polemicamente che “non possiamo essere liberi se non ci liberiamo da noi stessi”, interrogando il pubblico sulla “differenza che esiste tra libertà e liberazione” senza ricevere risposta da una platea occupata ad ondeggiare ad un ritmo tribale

Irreversibile Entanglements fondono suoni africani ed americani in modo appunto “inestricabile” come suggerisce il loro nome. Se il jazz deve evolversi in nuove direzioni, la strada è questa. I musicisti sono formidabili e la band bene assortita, a volte i rumori melodici che producono richiamano i Velvet Underground di Sister Ray. Camaya domina la scena con le parole e i gesti, come Jim Morrison con i Doors, altro poeta che fu. Similitudini che frullano in testa assistendo alla forza e all’energia che sprigiona il gruppo, capace di coinvolgere l’audience. La poetessa percuote vari oggetti, assecondando il ritmo che sale, come in un rito ancestrale, si cala tra il pubblico al grido di “We Can Not Be Free” che è un’esortazione a pensare il contrario, accenna danze con alcuni, seguita dagli occhi di tanti altri, poi risale sul palco proclamando la forza dell’amore, concludendo con un urlo definitivo:“Free Love”.

Richiesta di bis ovvia: “Ma per averne un’altra dovete gridare molto più fottutamente di così” scherza Camaya, mentre dopo un po’ la band torna sul palco per un ultimo pezzo e si finisce in allegria, tra sorrisi, abbracci e strette di mano mentre gli altoparlanti mandano musica swing di altri tempi.

La performance degli Irreversible Entanglements è un’esperienza sonora consigliata a chi nella musica non cerca solo divertimento ed energia, ma impegno civile e militante, riflessione sull’esistenza. Come era tanti anni fa e come, per fortuna, sta tornando ad essere.

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