Iron Butterfly: la farfalla di metallo che volò solo due anni tra psichedelia, hard rock e Oriente

Con la scomparsa del tastierista e cantante Doug Ingle, avvenuta il 24 maggio a 77 anni, gli Iron Butterfly raggiungono i Ramones in un triste traguardo. Sono il secondo gruppo storico del rock di cui nessun componente è purtroppo ancora in vita, anche se come band le loro tracce si perdono alla fine degli anni Sessantaa. Erik Brann, il chitarrista-prodigio che aveva 17 anni ai tempi di In-a-gadda-da-vida è morto di infarto a 52 anni nel 2003, il bassista Lee Dorman ci ha lasciato nel 2012 e nel 2021 abbiamo detto arrivederci al batterista e designer Ron Bushy.

Gli Iron Butterfly riunivano quattro musicisti formidabili, ma erano sostanzialmente la creatura di Ingle, fondatore e frontman, organista dalla voce possente. Nato a Omaha, Nebraska, il 9 settembre 1946, era figlio di un organista di chiesa e l’eredità paterna si scorge nella musica degli Iron Butterfly. Formò il gruppo a San Diego nel 1996 insieme a Bushy (nato a Washington il 23 dicembre 1941), al bassista Jerry Penrod, al chitarrista Danny Weis e al cantante Darryl DeLoach. Si spostarono a Los Angeles per suonare al celebre Whisky-a-Go-Go e si facero un nome aprendo alcuni concerti di Doors e Jefferson Airplane.

Ma Penrod, Weis e DeLoach, perdendo l’appuntamento con la storia, se ne andarono prima che fossero terminate le registrazioni del primo album Heavy (1968) cui parteciparono Dorman (nato a Saint Louis, Missouri, il 26 settembre 1942) e il giovanissimo Brann, nato a Boston ll’11 agosto. Il titolo è una dichiarazione programmatica, così come il nome del gruppo che, secondo Ingle, doveva riunire la pesantezza metallica del ferro e la leggerezza della farfalla.

L’album che li lanciò definitivamente fu però il secondo di quell’anno prolifico, In-A-Gadda-Da-Vida con la celebre title track (quasi una pronuncia “indiana” di In the Garden of Eden secondo la moda orientale dell’epoca), ipnotica, heavy, pulsante e orientaleggiante. Se il primo lato del disco, pubblicato il 14 giugno 1968, mostra ancora influenze beat e una musica tutto sommato ancora leggera, quasi pop, il brano di diciassette minuti che occupa tutto il secondo lato è un’esperienza sonora formidabile, un trip assoluto tra le trame organistiche e la voce potente di Ingle, la chitarra acida e sfrecciante di Brann, il battito pulsante di Dorman che sembra suonare cavi elettrici tesi tra due tralicci invece di un normale basso e l’assolo centrale, quasi tribale, di Bushy che accarezzando piatti e tamburi conduce l’ascoltatore in una trance estatica, utilizzando per la prima volta la tecnica del flanger.

C’è da dire che l’eccessiva lunghezza del brano, oltre ogni standard dell’epoca (anche se i Quicksilver l’anno dopo avrebbero dilatato i tempi nel loro Happy Trails) fece storcere inizialmente il naso ai discografici che imposero una versione più corta e “mutilata”. Dopo l’enorme successo del singolo a 45 giri che entrò nella top ten, però, si convinsero ad includere nel disco il brano integrale che rappresenta a tutt’oggi un capolavoro insuperato e per certi versi ancora attuale, vedi l’ispirazione data a gruppi come Motorpsycho, Stone Temple Pilots, Soundgarden, Queens of the Stone Age.

Il pezzo è stato anche la sigla della trasmissione radio “per giovani” Supersonic, andata in onda sulla Rai negli anni Settanta ed è stato utilizzato in diversi spot pubblicitari.

Di fronte ad un masterpiece del genere, il terzo album Ball (1969) non riuscì ad ottenere lo stesso successo. L’anno dopo se ne andò Brann (che tornò però successivamente nel 1974 e nel 1978 anche come cantante) e il gruppo lo sostituì con Larry “Rhino” Reinhardt e Mike Pinera (poi con Alice Cooper) alle chitarre, pubblicando Metamorphosis. Ma la magia era andata. L’album fu un fiasco e la band si sciolse per la prima volta nel 1971.

Nella seconda fase degli Iron Butterfly, però, non ci fu posto per il leader Ingle che abbandonò anche il mondo della musica, preferendo gestire parcheggi per r+ caravan e dedicarsi alla pittura. Bushy e Dorman riformarono la band nel 1974 assumendo come tastierista Howard Reitzes, poi sostituito da Bill DeMartinez. Ma non era la stessa cosa. La band incise due album poco apprezzati, Scorching Beauty (1974) e Sun and Steel (1975) cui partecipò anche Brann, prima di sciogliersi ancora nel 1976.

Con una certa tenacia, il marchio Iron Butterfly venne tenuto in vita artificialmente da Dorman e Bushy a cadenza decennale, nel 1988 e poi nel 1998. Il cuore di Eric Brann lo tradì il 31 luglio 2003 mentre stava pensando ad un ritorno sulle scene con un album solista. Nel 2011 venne annunciato che i due stavano lavorando ad un nuovo album, ma il progetto fu accantonato anche per la morte di Dorman, il 21 dicembre 2012, ottantenne. Nel 2020 Bushy figurava come “special guest” di una formazione composta da Eric Barnett (chitarra e voce) Dave Meros (basso e voce), Bernie Pershey (batteria, percussioni) e Martin Gershwitz (tastiere e voci), nomi che non figurano negli annali del rock. Ron Bushy era anche un abile grafico e aveva creato il logo del gruppo e le immagini del merchandising. Se n’è andato anche lui a ottant’anni come l’amico e sodale, il 29 agosto 2021.

I veri Iron Butterfly sono durati lo spazio di due formidabili anni, tra il 1968 e il 1969. Ora che nessuno dei componenti originari è rimasto, a noi resta per fortuna un album capolavoro, tra i 100 da ascoltare prima di morire, uscito in quel favoloso 1968 (ripubblicato in cd dalla Rhino nel 1995 con ben tre versioni di In-A-Gadda-Da-Vida) e mai più eguagliato nella storia discontinua del gruppo.

ascolti

  • Heavy (1968)
  • In-A-Gadda-Da-Vida (1968)
  • Live (1969)
  • In-A-Gadda-Da-Vida (1995)

Ti potrebbe interessare