Don Moye a Fusignano: con l’Express Trio sapienza ritmica, invenzioni e musica dal mondo

Famoudou Don Moye dispensa sapienza ritmica a Fusignano. Dall’alto dei suoi quasi 77 anni, parecchi dei quali trascorsi con l’Art Ensemble of Chicago, coinvolge e affascina con il suo Percussion & Brass Express Trio il pubblico dell’Auditorium Corelli, un altro gioiellino rivelato da Crossroads, rassegna che da venticinque anni porta in giro grande musica per l’Emilia in location più che interessanti.

Favorita dall’ottima acustica, l’esibizione cattura con le sue svolte improvvise. I tre scendono dalla scalinata per l’inizio del concerto intonando una canzone-mantra, quasi una preghiera propiziatoria. Poi prendono posto sul palco e parte la musica. Soffusa e poi potente nella dinamica che si instaura, Don Moye a sorreggere l’impalcatura ritmica, Christophe Leloil alla tromba e Simon Sieger alle tastiere, un funk jazz che si snoda leggero ed energico. Sieger è una vera rivelazione: padroneggia piano ed organo con maestria, suona il trombone, si muove con destrezza tra le mille percussioni allineate sulla scena. Leloil punteggia con assoli misurati, dialoga con tastiere e batteria, anche lui usa spesso le percussioni che sono il fulcro di questo suono onnivoro, saggio e divertente.

Maestro Don lascia briglia sciolta agli altri due, la sua musica antica e sapiente si nutre di energie più giovani, in un colloquio assolutamente paritario. Sia che picchi deciso su tamburi e piatti, sia che accarezzi dolcemente le pelli con le spazzole, Famoudou è il vertice più alto di un triangolo che delinea un’ intesa perfetta. Tra slow blues e accelerazioni improvvise, scarti e scariche nervose, i paesaggi che i tre disegnano si muovono tra Europa, Asia ed Africa, continenti che Don Moye ha esplorato partendo dall’America originaria (è nato a Rochester, New York, il 23 maggio 1947) in una ricerca sonora senza confini.

Si viene così trasportati in un viaggio tra diverse culture musicali, grazie alla sua profonda conoscenza di ritmiche africane e caraibiche, ricco di aspetti teatrali e ritualistici, soprattutto quando i tre si uniscono al canto in mezzo a percussioni di ogni tipo. Sembra di assistere a cerimonie senza tempo, invocazioni a qualche divinità della musica, di grande intensità e suggestione.

Peraltro, Moye, che si esprime in buon italiano, scherza a tratti col pubblico e mostra grande divertimento. La conclusione è proprio davanti al proscenio, con la frase ripetuta di “We the original people” (Louis Farrakhan?) a rivendicare le proprie radici. E in effetti, è proprio dall’Africa che viene tutto il jazz e il blues che conosciamo. Poi un breve bis, spruzzato ancora di funk frizzante e una richiamata a gran voce per il secondo encore, che non ci sarà, anche se il trio esce a ringraziare il pubblico e stringere mani tese. Giusto così perché, in un’ora e mezza i tre hanno dato veramente dato tutto.

Si esce dall’Auditorium con la sensazione di aver preso parte ad un’esperienza unica, una lezione di grande musica impartita senza condiscenza e quasi con umiltà da parte di un mito del jazz contemporaneo.

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