Un uomo solo al comando. Non è Fausto Coppi, ma Bruce Cockburn, solo con chitarre e voce al comando dell’intero, affollato, Teatro Dehon di Bologna, in un concerto che rimarrà a lungo nella memoria di chi c’era. Campionissimo di una musica senza tempo, alla quale si può accompagnare quell’aggettivo “world” un po’ abusato che, in questo caso, si attaglia perfettamente ad un songwriter canadese capace di esplorare mezzo mondo, traendone linfa vitale per la sua nutrita discografia.
Solo sul palco, Bruce Cockburn. Preceduto dal volonteroso Davide Falcone, in arte James Meadows, cantautore antropologo che ne segue le tracce con personalità, proponendo alcuni brani di sua composizione: Headin’ West, Holding the Future e Glass City dall’album d’esordio (2020) giudicato con toni entusiasti da riviste americane.
Quando arriva Bruce, appoggiandosi ad un bastone ma poi sicuro ed agile quando si sistema sul trespolo e le dita scorrono sulle corde, è un boato di benvenuto. Al quale il cantautore risponde con semplicità e gentilezza: “Thanks for coming”, grazie per essere venuti.
Poi, la musica. Inizialmente con i suoni metallici e limpidi del dobro, in un blues tanto per scaldarsi a cui segue un’accorata versione di Soul of a Man del grande Blind Willie Johnson. E viene da pensare che è il blues il collante tra più generazioni, l’eterna musica delle radici che quest’uomo propone con passione e sentimento, in un brano che fa parte della storia del genere ed è stato scelto da Wim Wenders come titolo del suo bel film del 2003 per il ciclo di Martin Scorsese.
Arriva Whole Night Sky e quindi per On the Road, dal nuovo O Sun O Moon, Bruce imbraccia la sei corde acustica, snocciolando le sue poesie alternate a piccoli saggi di come si suona la chitarra, così come in Strange Waters con quel verso bellissimo (“Everything is a bullshit but an open hand”) e ancora All the Diamonds in the World (“Ne faccio una vecchia”, annuncia) con l’immagine evocativa del cigno di cristallo. “Una semplice canzone d’amore” definisce Place that you hold in my life, ancora dall’ultimo album, seguita da un bellissimo strumentale da Crowing Ignites (2019), folk venato di jazz, blues e altre suggestioni sonore, sulle orme di Leo Kottke e John Fahey, e quindi l’ironia di Cafè Society e i cieli stellati di Lord of the Starfield.
Gli anni passano, quelli di Bruce si avvicinano all’ottantina, sottolineati da un barbone candido da patriarca biblico. Però la voce è rimasta quella, profonda e vellutata, capace di smuoverti dentro, suscitare emozione. Se chiudi gli occhi, è come se ascoltassi un trentenne. E il pubblico (nessun giovane, un peccato) dimostra di conoscere le canzoni e le storie, applaude ogni brano.
Quando abbandona la chitarra per una sorta di ukulele-mandolino a dodici corde in Bone in my ear, ne estrae ancora meraviglie sonore, quindi torna alla sei corde per Lovers in a Dangerous time, regalata ai Barenaked Ladies e ancora States I’m In con il suo swing, gli accordi strappati e infine la conosciutissima Wondering Where the Lions Are con sommessi cori del pubblico, a strappare applausi a scena aperta. Chiude il set If a Tree Falls, parole dure contro la distruzione della foresta amazzonica, in contrasto con gli arpeggi delicati: “Se un albero cade nella foresta/qualcuno lo sentirà?”
Bruce scende dal trespolo e ne ne va salutando e ringraziando, curvo sul suo bastone da fare tenerezza. Poi torna, acclamato in standing ovation e per salutarci sceglie uno dei suoi brani più politici come Burn del 1975 (“Filippine ieri, Santiago e Grecia oggi/Come potrebbero far rendere le ultime notizie/se non avessero la CIA?”) , i virtuosismi resophonici di un altro strumentale (The End Of All Rivers) con un sapiente uso di loop per doppiarsi e la quasi sussurrata Us All. Grande anima e una tecnica sopraffina per una serata davvero memorabile.
Si esce nella notte ricordandosi di domandarci sempre dove sono i leoni, in questo tempo pericoloso, non solo per gli amanti.