Le paure e la paranoia dei tempi moderni nell’ultimo album degli Smile, Wall of Eyes

Gli Smile sono nati due anni fa, apparentemente nelle vesti di uno dei più promettenti side-project nel mondo della musica alternativa. Molti fans dei Radiohead li hanno apprezzati e amati, seppur guardando con rimpianto alla band madre. Il primo album del supergruppo formato da Thom Yorke, Jonny Greenwood e Tom Skinner segnava tuttavia un inequivocabile punto di rottura rispetto al passato. A light for Attracting Attention profumava da un lato di quelle atmosfere oniriche tipiche dei Radiohead, ma tecnicamente aveva un suono diverso, ancor più eclettico e con coloriture sperimentali spesso spigolose.

Nonostante le perplessità di alcuni, gli Smile sono riusciti così ad attirare l’attenzione dei sostenitori e della stampa che ha riconosciuto senza esitazioni il loro valore artistico. C’era perciò grande attesa per il loro secondo album, pubblicato lo scorso 26 gennaio. Al primo ascolto risulta un lavoro sostanzialmente complesso, quasi di difficile ascolto; questo tuttavia è un indizio di poco valore, poiché tutte le produzioni di Thom Yorke (esclusi i primi due album dei Radiohead) hanno sempre avuto questo effetto iniziale sull’ascoltatore.

Il titolo Wall of Eyes è una predizione di quell’atmosfera di profonda paranoia che pervade l’intero album. Ancora una volta Thom Yorke incarna alla perfezione lo spirito dei nostri tempi. Il messaggio sembra quello di un’effimera speranza di libertà che si scontra irrimediabilmente contro il potere dei pochi che rubano i sogni ai molti. Il sentimento di alienazione unito alla follia di perdere il controllo è un po’ il leit motive dell’album. La struttura musicale è fatta di melodie talora leggere, di ritmi sinuosi che richiamano il jazz e di suoni che si moltiplicano e si amplificano fino allo sfinimento. E poi c’è la voce dolce e straziata di Thom, l’alieno sulla terra in cui tutti noi numeri primi ci identifichiamo ormai da decenni.

La prima traccia ha il nome dell’album e lancia fra le varie provocazioni quella del ‘muro di occhi dietro al tuo dispositivo’. L’allusione nemmeno troppo velata alla inebriante sensazione di finta libertà che ci regalano quotidianamente i social, ingabbiandoci nella peggiore forma di controllo dei nostri pensieri.

Il motivetto leggero, intriso di atmosfere che richiamano a tratti la bossa nova, amplifica il senso di paranoia. Thelearmonic è forse il brano più spirituale dell’album. “Oh Signore, come dovrei dimenticare? Appeso, bloccato da martello e chiodi”. È una visione priva di speranza che si chiude con quel timoroso interrogativo finale “Dove mi stai portando?”. La voce di Thom è arricchita in alcuni momenti da un eco che la rende surreale. La batteria di Skinner col suo percorso solitario, quasi asincrono regala invece un’atmosfera malinconica, come l’incedere di una processione verso un inevitabile ed amaro destino.

Read the Room segna quasi una momentanea rivalsa con quel “conterò fino a tre e terrò questa merda lontano da me”. Eppure la paranoia ritorna zuccherosa e nauseante in Under your pillow. “Al giorno d’oggi tutti sono per la condivisione. Non lasciare che mi prendano. Prova a convertirmi con una voce che non ha un cuore che batte. Al giorno d’oggi tutti sono per una condivisione che non ha un cuore che batte”. Sono versi che racchiudono alla perfezione l’ipocrisia dei nostri tempi, in cui dietro all’insegna del buonismo si nascondono minacce occulte alla libertà di pensiero. Il finale onirico e psichedelico del brano amplifica al massimo quel sentimento di profonda alienazione che genera un fastidio quasi insostenibile.

Segue Friend of a Friend con una melodia dolce e rassicurante, come se il peggio fosse ormai alle spalle. Eppure è solo un’illusione. Ti guardi intorno, tutti sorridono e tu pensi che puoi fidarti. Sei convinto di essere libero fare le tue scelte e determinare il tuo destino. Poi però li guardi da un balcone che ridono fra loro e ti senti di nuovo escluso, ancora una volta fuori da quei giochi di potere che non capisci e che però subisci. È la più politica delle canzoni dell’album e si conclude con l’amara riflessione “Tutti quei soldi, dove sono finiti? Nelle tasche di qualcuno, un amico di un amico”.

È un’allusione amara a tutti i sogni rubati dalla cultura clientelare e del malaffare che brucia i sogni della comunità ancor prima che si realizzino. Non è poi così casuale la scelta di far suonare la band dinanzi ad una scolaresca di bambini (che per inciso è quella dei due figli del batterista Skinner) nel videoclip. Sembra quasi che vogliano aprire gli occhi a quei bambini ed istruirli su un mondo che ti illude, ti mente e di cui è impossibile fidarsi. I bambini sorridono poco convinti, sbadigliano annoiati o giocano fra di loro ignorando il messaggio, esattamente come milioni di adulti che quotidianamente voltano le spalle alle ingiustizie del nostro mondo.

I quit è la resa. “Questa è la fine del viaggio, un nuovo percorso fuori dalla follia”. I versi definiscono una cantilena malinconica e sgraziata, il tentativo forse inutile di convincersi che una via d’uscita esista per davvero. Il brano esita in maniera naturale in quello successivo, Bending Hectic, uno dei momenti creativi di maggiore elevatura dell’intera produzione della band. È incredibile come le atmosfere disegnate dalla chitarra e dalla incredibile voce di Thom trasformino suoni e parole in un messaggio visivo. Perché chiunque di noi ascoltando il brano vede sè stesso alla guida di quella macchina che percorre le strade italiane di montagna come in un film degli anni sessanta (come accenna chiaramente il testo).

Chiunque di noi resta vittima di quel dilemma “ho queste fionde, queste frecce, mi costringerò a svoltare”. Non è chiaro se lo sterzare sia verso un burrone e la morte o verso la strada e la vita. I suoni sembrano scivolare verso il basso vorticosamente, ma rimbalzano improvvisi verso il cielo in una spirale in cui la vita e la morte, la gioia e il dolore, il peccato e la salvezza diventano quasi un tutt’uno. L’assolo di chitarra di Jonny Greenwood chiude il brano in un virtuosismo musicale da brivido che suggella la preziosità della traccia.

L’album si chiude con uno dei brani più eclettici degli Smile, You Know Me. Intervistato sulla scelta degli Abbey Road Studios per le registrazioni, Thom Yorke ha dichiarato di aver cercato quasi disperatamente di tenersi distante da tutto quello che per i Beatles avevano rappresentato quegli studi. Eppure in questo brano aleggia lieve lo spirito di quel George Harrison che ricercava una dimensione mistica universale.

Gli echi lontani, il suono ripetitivo e cantilenante del piano e la voce trascendente ed impalpabile di Thom disegnano la giusta conclusione del viaggio. “Ti sei avvolto intorno a me come se mi conoscessi… non pensare di conoscermi, non pensare che io sia tutto ciò che dici”. Il percorso si chiude con l’affermazione del proprio ego al cospetto di un’entità sconosciuta e pericolosa. Davide sfida ancora una volta la potenza di Golia, convinto che la propria individualità unica e insostituibile sarà la sua arma vincente. Questa società che a momenti perseguita gli individui e cerca subdolamente di uniformarli non potrà mai del tutto soffocare l’individualismo dell’essere umano.

Il muro di occhi è un’entità astratta dalle caratteristiche fantastiche ed oniriche che ci osserva, ci plagia e ostacola la nostra libertà. Rappresenta la società del pettegolezzo e della critica gratuita, dell’ipocrisia, dei diritti sbandierati e mai realizzati. È lo stendardo della finta libertà di pensiero dei social che si scontra contro quel muro di idee uniformate in cui l’individuo scompare. È la società del malaffare e delle occasioni perse. È un mondo brutto e difficile, in cui difendere il proprio ego diventa davvero l’unico motivo per combattere e andare avanti.

Thom Yorke e Jonny Greenwood hanno mostrato un immenso coraggio nel ricominciare con una nuova avventura, accantonando forse momentaneamente un successo che li aveva da tempo ormai consacrati. Ed ancor maggiore coraggio hanno evidenziato nel produrre un album che seppur lontano dall’essere un messaggio politico e sociale, rimane uno dei più artistici tentativi di denuncia dei nostri tempi. E come diceva il saggio George Orwell “in un momento di inganno, dire la verità è un atto rivoluzionario”.

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