Antonio Bacciocchi, batterista e scrittore, è un’autorità riconosciuta in materia di cultura mod, musica british e libri intelligenti e documentati. Non poteva quindi mancare, nel cinquantennale di Quadrophenia, all’appuntamento con il capolavoro degli Who, seconda opera rock di Pete Townshend in quattro anni (ci sarebbe anche Lifehouse, ma è un’altra storia) e pietra miliare della storia del rock diventata anche film, come successe a Tommy.
Al suo Quadrophenia (edizioni Interno 4) bastano 160 pagine ben assestate per raccontare la genesi del progetto, inquadrarla storicamente nel periodo più creativo di Pete e soci quanto nella cultura mod, ripercorrendo le fonti di ispirazione, la gestazione alquanto tormentata e le difficoltà di registrazione, con una serie di sovraincisioni e basi di synth che la rendevano complessa da eseguire dal vivo.
A proposito della prolificità di Townshend, Bacciocchi annota che Quadrophenia potrebbe essere anche la sua settima o ottava opera-rock: abbozzi di questo tipo di composizione sono presenti già del 1966 in altri album come A Quick One e Sell Out. Una parte molto interessante del libro è dedicata all’argomento, non anticipiamo a chi voglia approfondire.
Nel 1972, in un momento di stasi del gruppo in cui cominciano già a circolare voci di scioglimento, visto che tutti si erano dati ad esperienze soliste, Townshend si mette a lavorare su un abbozzo di idea: vuole raccontare la storia di un ragazzo mod, ma anche quella dei quattro componenti delle band. Inizialmente infatti il progetto doveva constare di un album con quattro facciate rispecchianti le singole personalità musicali, ma poi l’idea venne accantonata. Il titolo è una crasi intelligente tra quadrophonia (il sistema quadrifonico allora ai primordi con cui doveva essere registrato l’album, poi abbandonato per un tradizionale stereo) e schizofrenia, in relazione al carattere “mosso” del protagonista Jimmy, ma anche riconducibile alle vite dei membri del gruppo.
Quadrophenia, musicalmente ispirato per lunghi tratti a Wagner e Bach, come al Billy Budd di Benjamin Britten e a Purcell, è un disco di rock eccezionale, con la struttura di un’opera classica e l’utilizzo – tra i primi – dell’elettronica, che conduce il gruppo verso il superamento del genere. Ha una dimensione quasi sinfonica e orchestrale, ma realizzata con strumenti elettrici e fiati (tutti suonati da Entwistle) e nel contempo un fortissimo impatto rock con momenti aurorali. Vede il gruppo al massimo della sua potenza creativa ed espressiva, un vertice mai più raggiunto. Regge benissimo al tempo, molto più di Tommy, con sonorità moderne e interessantissime anche mezzo secolo dopo.
Un capolavoro assoluto dalla genesi tormentata, che Bacciocchi narra con dovizia di particolari, aggiungendo considerazioni personali interessanti. Un racconto già per immagini nella sua concezione che infatti divenne un film di Franc Roddam nel 1979 con un quasi sconosciuto e bravissimo Phil Daniels nei panni dello schizzato protagonista e uno Sting in piena ascesa con i Police nella parte di Ace Face, il capo carismatico dei mod che poi si rivela nella vita facchino d’albergo.
Il film finisce in modo diverso dal disco, sulle scogliere di Dover anziché su uno scoglio in mare dove Jimmy medita sulla sua esistenza, scoprendovi forse un senso. Bacciocchi spazza via ogni dubbio sul finale che aveva lasciato perplessi alcuni spettatori: lo scooter rubato ad Ace Face vola nel vuoto, ma il ragazzo si è salvato all’ultimo momento, come mostrano le prime immagini del film e quelle successive, quando cavalca la sua Lambretta sulle note di The Real Me, in narrazione circolare.
Quadrophenia è un disco che andrebbe fatto ascoltare nelle scuole per capire come si suona e si compone, ma anche come si racconta una storia. E’un’opera-rock ma anche un romanzo di formazione in cui chiunque può rispecchiarsi che racconta la disillusione e la speranza di una generazione e ha rilanciato la cultura mod che nel 1965 era già superata dai Beatles. Così come il libro di Bacciocchi dovrebbe essere adottato come testo dai giovani che decidono di interessarsi alla grande musica, affrontando un ascolto di 80 minuti, impegnativo, certo, ma che può schiudere orizzonti. Roba del genere non se ne sente più in giro da tanto tempo.
Paolo Redaelli