Si finisce sempre a cantare in coro Govinda, quando sul palco ci sono i Kula Shaker. E’un brano che ha marchiato a fuoco gli anni Novanta, con quel suo ritornello-mantra che apriva mondi nuovi al brit-pop, nell’esplorazione di altra musica, riprendendo quell’interesse per la cultura indiana che era stato dei Beatles. Sprazzi di psichedelia e una chitarra che suona come un sitar, rock elegante, espansione della mente e good vibrations.
Anche il concerto di Ferrara Sotto le Stelle, in quel gioiello del Teatro Comunale, non è sfuggito alla regola. Un’ora e mezza di grande musica e poi l’apoteosi, nel bis, con quel brano. I Kula Shaker esplosero nel 1996 con un album, K, che regge tuttora benissimo al susseguirsi di mode musicali. Le note di Hey Dude, che apriva il disco, sono quelle scelte per dare il via al concerto, dopo qualche secondo di musica diffusa in cui Crispian Mills, inginocchiato, sembra raccogliersi in preghiera. Poi la chitarra parte con il celebre riff, la musica schizza via, condotta dalle tastiere elettrizzanti di Jay Darlington, soprannominato Gesù da Noel Gallagher ma che stasera, con quei lunghi capelli bianchi, ricorda Leon Russell o Gregg Allman.
Il set si regge sui due poli di chitarra e tastiere, con il bassista Alonza Bevan e il batterista Paul Winterheart ad assicurare adeguato supporto ritmico, cambio di tempi e imprevedibilità che hanno segnato la storia musicale dei Kula Shaker. Nome ispirato ad un poeta e mistico indiano, ma leggermente cambiato, a sottolineare appunto la miscela musicale scossa come in un cocktail. Raga-rock si chiamava, ai tempi di George Harrison e dei Byrds, l’influenza della musica indiana sulle sonorità elettriche occidentali. Oggi potremmo chiamarlo Hindu-Pop, con facile gioco di parole che comunque non rende l’estrema ecletticità della band, capace di passare rapidamente da accenti hendrixiani a rallentamenti psichedelici, suggestioni folk e armonie vocali.
“I here the sound of drums” canta Mills ed evoca paesaggi lontani, poi in Gaslighting ad un certo punto cede la parte vocale a Bevan, nel nome di un collettivo affiatato. Whatever It Is (I’m Against It)è un altro inedito, prelude ad un nuovo disco che si chiamerà Natural Magick, uscirà nel gennaio 2024 e sarà il settimo in quasi trent’anni, dopo divisioni e riunioni di una carriera discontinua. Ma tant’è. Quando i riff aggressivi di Grateful When You’Re Dead liberano la psichedelia sognante di Jerry was There, omaggio al mitico Garcia nell’alto dei cieli lisergici, il teatro, che all’inizio vibrava percosso dall’energia, si mette a cantare in coro.
Amati, amatissimi, Kula Shaker. Capaci di inventare un genere guardando al passato in una linea rossa che va dai Beatles ai Led Zeppelin, supera il punk e recupera sonorità alla Traffic come il “padrino” neo-mod Paul Weller fece in quei strani e pazzeschi anni Novanta. Il pubblico di Ferrara adora e Mills ricambia l’affetto, parlando volentieri, presentando i brani, schitarrando e saltando, inginocchiandosi e scuotendo il capello biondo. Ecco Natural Magick e altri pezzi di recente scrittura, ma la ricetta è la stessa: pop saltellante, venato di rock sapiente, sgroppate di chitarra e tastiera e graffi improvvisi. Poi, la sognante Shower Your Love dal secondo album. Un picco arriva con Tattva, inno all’unità nella diversità, sapienti pennate a introdurre la nenia orientale che si fonde con le vibrazioni di Hush, già successo dei primi Deep Purple, scritta da Joe South, ancor più accelerata ed esplosiva. E Darlington la “lordizza” alla grande.
Sarebbe finita (davvero?) qui. I quattro abbandonano tra applausi scroscianti, poi rientrano per il bis chiamato a gran voce da quattro ordini di palchi, loggione e platea. E sarà appunto Govinda, l’apoteosi, la celebrazione di tutto, la devozione spirituale verso una divinità sul megaschermo che sembra George Harrison. E forse lo è.
Kula Shaker sono in salute, anche se il canto di Crispian – comprensibilmente – non raggiunge più i picchi di una volta, gli anni passano, si suona novanta minuti e comunque la band riesce ancora a divertire, affascinare e provocare non pochi brividi sulla pelle, segno inconfondibile dell’emozione che suscita il rock quando è ricco di energia vitale, eclettico, non stantio e risaputo.