Si accorgono di te quando non ci sei più. Prima sei nel dimenticatoio da anni, magari decenni. Poi muori e improvvisamente ti celebrano come icona, musicista importante, mito. Non si è sottratta a questo destino Sinéad O Connor, voce strepitosa, anima tormentata da tempo finita nei gorghi di una malattia mentale, distrutta dal recente suicidio del figlio diciassettenne Shane.
L’ennesimo dramma di cui è costellata la storia del rock, in costante squilibrio tra morte e vita. A coloro che se ne vanno per motivi anagrafici e cause naturali, dobbiamo purtroppo aggiungere chi ci abbandona prima del tempo.
Oggi tutti si ricordano di Sinéad ma, fino a una settimana fa, quanti? Morrissey, uno che non le manda a dire, ha scritto, senza ipocrisie: “E’ stata abbandonata dalla sua casa discografica dopo aver venduto sette milioni di album. Ha perso la testa, sì, ma non è mai stata poco interessante, mai. Aveva un’orgogliosa vulnerabilità…e c’è un certo odio da parte dell’industria musicale per i cantanti che non si adattano (lo so fin troppo bene) e non vengono mai elogiati fino a quando arriva la morte, quando, alla fine, non possono rispondere”.
E ancora. “L’hanno chiamata triste, grassa, pazza…oh, ma non oggi. Gli stessi amministratori delgati che avevano sfoggiato il sorriso più affascinante quando l’hanno rifiutata ora stanno facendo la fila per chiamarla “icona femminista” e chiunque nell’ambiente musicale si sta facendo sentire…quando sei stato TU a convincere Sinéad ad arrendersi…perché ha rifiutato di essere etichettata ed è stata degradata, come lo sono sempre quei pochi che muovono il mondo”.
Morrissey l’antipatico, lo sbruffone inviso a mezzo mondo del rock, pone una domanda che dovremmo porci tutti e non solo per Sinéad, ma anche per il vicino di casa. “Come può essere sorpreso qualcuno dalla sua morte? Chi si è curato abbastanza di loro per salvare Judy Garland, Whitney Houston, Amy Winehouse, Marylin Monroe, Billie Holiday? E’ stata tormentata perché semplicemente era se stessa”.
Come ha ricordato Enzo Gentile, giornalista attento ai fatti della vita e non solo a quelli musicali, nel 2022 era uscito un documentario di Kathryn Ferguson dal titolo Nothing Compares che raccontava senza fronzoli la sua vita tormentata di musicista e donna nel periodo 1987-93, passato praticamente inosservato, da cui si sarebbe potuto capire molto.
Sinéad nel 1992 ha stracciato in diretta tv una foto di Papa Giovanni Paolo II, al grido di “Combatti il vero nemico!” e il gesto le è valso una condanna a morte mediatica, perlopiù in un cattolicissimo paese come l’Irlanda. Voce angelica e spirito diabolico, s’era detto ai tempi, bollando l’eretica. In realtà era un modo provocatorio per attirare l’attenzione del mondo sul problema della pedofilia diffuso nella chiesa cattolica, di cui anche lei era stata vittima. Una madre violenta, l’abbandono in un convento di suore dove probabilmente aveva subito abusi, segnarono indelebilmente la sua vita.
Nata a Dublino l’8 dicembre 1966, Sinéad Marie Bernadette O’Connor era uscita di prepotenza nel 1990 con la cover meravigliosa di un brano di Prince, Nothing Compares 2 U che aveva trasformato (un po’ come Joe Cocker con With a Little Help) in un’invocazione struggente d’amore di cruda emozione. Prima ancora l’avevamo vista in alcuni video dei World Party di Karl Wallinger, il cranio completamente rasato. L’album I Do Not Want What I Haven’t Got la fece diventare famosa in tutto il mondo, collaborò con giganti come Peter Gabriel, Roger Waters, Van Morrison, The Chieftains.
Dopo il gesto contro il papa, fu fischiata dal pubblico del Madison Square Garden per il trentennale di Bob Dylan e dovette abbandonare il palco, confortata solo da Kris Kristofferson. Qui iniziò la sua lenta discesa, l’album Universal Mother del 1994 vendette pochissimo. Alla fine del decennio fu ordinata prete di un movimento cattolico indipendente e si ribattezzò madre Bernadette Mary, dichiarando nel 2005 che la sua missione era “salvare Dio dalla religione”. Le sue prese di posizione estreme non ne favorirono certo la carriera, tra disturbi bipolari, relazioni troncate, cambi di identità (si fece chiamare anche Magda Davitt) e conversioni religiose che la portarono nel 2018 ad abbracciare poi la fede islamica, con il nuovo nome di Shuhada’ Davitt, pur mantenendo il suo nella vita artistica.
Nella sua discografia degli ultimi anni spicca l’album del 2012, How About I Be Me (And You Be You)? dal titolo esplicativo (Che ne dici se io fossi io e tu fossi tu?) che contiene una bellissima versione di Song to the Siren di Tim Buckley. L’ultimo disco è del 2017, I’m Not Bossy, I’m the Boss, altra dichiarazione di intenti (Non faccio il capo, sono il capo) poi le sue tracce si perdono dentro la malattia mentale. Ultimamente sembrava felice di lavorare ad un nuovo album, ma non erano mancati segnali premonitori.
Nel 2015, dopo aver dichiarato di non voler più cantare Nothing Compares, perché non la sentiva più sua e non riusciva a dare le stesse emozioni al brano, aveva scritto sulla sua pagina Facebook «Le ultime due notti mi hanno distrutto. Ho preso un’overdose. Non c’è altro modo per ottenere rispetto. Non sono a casa, sono in un hotel da qualche parte in Irlanda, sotto un altro nome. Finalmente vi siete sbarazzati di me.»
E nel 2017, in un video di 11 minuti: «Sono da sola, tutti mi trattano male e sono malata. Le malattie mentali sono come le droghe. Vivo in un motel Travelodge in New Jersey e sono da sola. E non c’è niente nella mia vita eccetto il mio psichiatra, la persona più dolce al mondo, che mi tiene in vita. Voglio che tutti sappiano cosa significa e perché faccio questo video. Le malattie mentali sono come le droghe, sono uno stigma. All’improvviso, tutte le persone che dovrebbero amarti e prendersi cura di te ti trattano male»
Nel 2021 pubblica la sua autobiografia, Rememberings. Il 7 gennaio 2022 il figlio Shane che era in cura presso un centro psichiatrico per aver manifestato tendenze suicide, viene trovato morto. La stessa fine tocca a lei, il 26 luglio 2023, nel suo appartamento di Londra. Probabile abbia voluto seguirlo.
Ora, per dirla ancora con Morrissey: “I suoi occhi finalmente si sono chiusi alla ricerca di un’anima da poter chiamare sua”.
ascolti
- I Do Not Want What I Haven’t Got (1990)
- Am I not Your Girl? (1992)
- Universal Mother (1994)
- How About I Be Me (and You Be You)? (2012)
- I’m not Bossy, I’m the Boss (2017)
visioni
Live! (Valueo of Ignorance +The Year of The Horse (dvd,2003)
Nothing Compares, di Kathryn Ferguson (2022)
parole
Rememberings, 2021