Live from a Shark Cage. Una “gabbia per squali” dalla quale uscire con le orecchie spalancate

Esistono innumerevoli esempi di album passati indegnamente sottotraccia, per quanto l’obiettivo dei relativi artisti sia spesso proprio quello di partire dal basso e di rimanerci, il che li rende co-responsabili di questa poca risonanza mediatica. Album che andrebbero scoperti e riscoperti, ascoltati e riascoltati, e, con il beneficio del tempo, essere portati a un livello di consapevolezza superiore da parte di una medio-grande utenza. In questa categoria rientrano molti dei lavori nei quali ha cooperato – o sui quali ha messo la firma – David Pajo, un chitarrista tra i più innovativi nella scena alternativa anni ’90 e non solo.

“Live from a Shark Cage” (1999) di Papa M, per intero su Youtube

Passato attraverso diverse esperienze preparatorie alla sua carriera solistica, il musicista texano ha coniato un suo stile particolarissimo, che risente di molte delle influenze che nel suo percorso è riuscito a incanalare, all’insegna di una scoperta e riscoperta che, per l’appunto, trasmette, come concetti intrinseci della sua proposta sonora. L’utenza prediletta da Pajo è sempre stata quella appartenente a una nicchia interessata (il milieu dei college USA), ma è virtualmente estendibile oltre.
Membro, in adolescenza, di diversi progetti decisivi per lo sviluppo di filoni come il post-hardcore (nel genere spiccano, ai tempi in cui milita nei Solution Unknown, i colleghi Squirrel Bait di Skag Heaven, 1987), il chitarrista è noto per aver fatto parte di una delle band più innovative e influenti della storia della musica, gli Slint. A loro si riconosce la paternità del post-rock di matrice statunitense, tracciabile a Louisville, Kentucky (sua città di adozione), con il loro album più iconico, Spiderland (1991) a fare scuola a innumerevoli musicisti a venire. Nel 1995, Pajo migra a Chicago, Illinois, dando vita ai For Carnation e l’anno dopo partecipa a un altro traguardo nel post-rock, Millions Now Living Will Never Die dei Tortoise. La maturità come mente autonoma è dietro l’angolo.
Dal 1996 al 1999 si susseguono sue uscite discografiche siglate con diversi moniker: l’EP M is the Thirteenth Letter/Monade a nome M is the Thirteenth Letter (in italiano, “La M è la tredicesima lettera”), l’omonimo come Aerial M (“Radio M”, o “Antenna M”) e il lavoro oggetto del presente scritto, id est Live from a Shark Cage (“Live da una gabbia per squali”), del 25 ottobre 1999. Per questa uscita, Pajo si ribattezza Papa M, dove “papa” corrisponde alla parola in codice rappresentante la lettera “P” nelle comunicazioni radio.

“Spiderland” (1991) degli Slint

Mentre l’EP come M is the Thirteenth Letter si risolve nell’autoproduzione, Aerial M e Live from a Shark Cage figurano tra gli esemplari della scuderia Drag City, una casa discografica indipendente tra le migliori per la musica sperimentale, con nomi mica-da-ridere come gli oltranzisti Royal Trux, il progetto Smog (dietro cui si cela il cantautore Bill Callahan) e i Silver Jews.
All’interno del booklet di Live from a Shark Cage, una piccola sezione dedicata alle liner notes segnala più location per l’incisione dei vari brani: Pajo, alias Papa M, si divide tra San Francisco, Chicago e Louisville, ma vola addirittura nel Regno Unito, a Londra, per la composizione più lunga del lotto, I Am Not Lonely with Cricket.
L’immagine scelta per l’album salta all’occhio come piuttosto minimale e curiosa, se non addirittura sinistra. Si tratta di una fotografia – scattata da un certo (o una certa) Valery Yakushev – di una porzione di un muro della Park Kul’tury, una stazione della metropolitana a Mosca, Russia. Due figure in rilievo, una femminile, una maschile, si corrono incontro, impresse in quella che sembra una moneta su sfondo nero.

David Pajo, con musicisti al seguito, che ripropone live, nello stesso anno di “Live from a Shark Cage”, diversi brani dall’album

I tre progetti che hanno in comune il focus sulla lettera “M” si possono definire one-man band, dal momento che a comporre e a suonare tutto in studio è lo stesso Pajo.
In un’intervista al critico musicale Piero Scaruffi, l’artista, solitamente molto poco disposto alle dichiarazioni, si dimostra però conciliante, e rivela dei particolari su quello che era il suo obiettivo con incarnazioni di sé come Aerial M e Papa M ovvero “Volevo conoscere qual era il mio suono, perché tutto ciò che conoscevo prima era frutto di collaborazione. Avevo bisogno di sapere quello che ero in grado di mettere in tavola”.
Nell’arco di cinquantanove minuti fluiscono undici brani in cui Pajo si alterna alla chitarra, al basso e alla batteria principalmente, ma c’è spazio anche per degli effetti elettronici e per degli strumenti a percussione che producono dei dolci e squillanti tintinnii, che creano un’atmosfera riecheggiante l’infanzia.

David Pajo intervistato quest’anno, 2023, da EarthQuaker Devices, azienda produttrice di pedali per gli effetti

In realtà, le chitarre sono più di una, in quanto lo strumentista opera su queste con un approccio da studente e maestro, creando meticolosamente panorami sonori unici, stranianti, a tratti abulici e tetri, a volte luminosi ed evocanti qualcosa di ancestrale. L’influenza più ovvia è quella di un John Fahey, in generale dell’American Primitivism. Non a caso, le poche parti vocali, di un lavoro altrimenti quasi interamente strumentale, rimandano a Robbie Basho.
Nonostante una tale influenza sia stata disconosciuta dal polistrumentista texano, il sottoscritto ha colto, in alcuni frangenti, delle sottigliezze, nell’elettronica applicata alla chitarra, che suggeriscono un ideale paragone con Robert Fripp (la mente e il cuore dei King Crimson). Oltre alle chitarre comunemente intese, fa la sua bella figura, qua e là, un banjo che, con le sue linee melodico-ritmiche, crea un’atmosfera bucolica, ma non cheesy, e riporta al genere dell’American Primitivism (a Sandy Bull, per la precisione).
Il pianoforte, che fa la sua comparsa già nel secondo pezzo, Roadrunner, suona classicheggiante ma minimale; gli effetti acustici, d’altro canto, come ad esempio i rintocchi e i suoni ovattati, fanno pensare al “futurismo” compositivo di Robert Wyatt in The End of an Ear (1970). La prima breve traccia (Arundel) ha un che di elettroacustico, e fa da preludio a una raccolta di brani stupefacenti, magici, mesmerici. L’elettronica impiegata in maniera non troppo invasiva trova un precedente in Martin Rev del duo newyorkese dei Suicide.

John Fahey, pioniere del genere dell’American Primitivism, di grande ispirazione per Pajo. Qui in un’esibizione live del 1969, suona “Red Pony”

In sintesi, ognuno dei “parafernalia” coinvolti da Pajo, alias Papa M, contribuisce alla creazione di una musica totale, divisa tra classicismo, minimalismo e futurismo. Una variante prettamente americana dell’ambient comunemente intesa, con il musicista che prende il country e la “musica classica per chitarra” dei suoi predecessori, maestri nel fingerpicking cosmico, e la attualizza ai dettami del post-rock. Un esperimento simile a quello del neozelandese Roy Montgomery – si pensi a The Allegory of Hearing, del 2000.
In linea con l’attrazione per il mezzo radiofonico, vero e proprio chiodo fisso di Pajo, la settima composizione nell’ordo rerum, Crowd of One, si apre con il campionamento di conversazioni disturbate tipiche dei vecchi apparecchi radio, primo-novecenteschi, e si instaura così un clima struggente e, in qualche modo, poco rassicurante, a cui contribuisce il riff ipnotico di chitarra.
I migliori “momenti” del pacchetto sono quelli più lunghi, dilatati, snervanti per quanto sono belli. Impossibile non emozionarsi! Drunken Spree, di nove minuti, è pura mistica, seduzione esoterica che fa viaggiare tra le orbite in un modo simile, a livello compositivo e di atmosfere, a Blend del già citato Bull e all’ode suprema alla fine, la The End doors-iana. Altro tour de force, la “londinese” I Am Not Lonely with Cricket. A chiudere la scaletta, tre tasselli altrettanto mesmerici, soprattutto Knocking the Casket, in cui viene riprodotto il “bussare sulla bara”.

“At the Intersection of Herzog and Wenders”, brano del chitarrista Roy Montgomery tratto da “The Allegory of Hearing” (2000)

Live from a Shark Cage non cala mai di tono neppure per un momento. È un’incisione il cui unico difetto coincide con il minutaggio complessivo. Non un lavoro per tutti i gusti, non un disco che vuole compiacere, ma uno studio sulle possibilità dei linguaggi che i vari generi significano, una contaminazione che nel suo essere eclettica non è, tuttavia, sterile velleità. L’emozione più viscerale è sempre in attesa di emergere, ogni volta che un brano finisce e c’è il silenzio. Usciti dalla gabbia per squali, si ritorna nel mondo con le orecchie non aperte, spalancate! Un album da ascoltare assolutamente.

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