L’otto maggio del 1970 usciva Let it be, l’ultimo album dei Beatles che segna la fine di un’epoca.
Sono passati cinquantatre anni, ma ancora oggi quel disco ha un tremendo impatto emotivo su tutti coloro che hanno amato il quartetto di Liverpool. Lennon – Mc Cartney non era solo la firma dei capolavori senza tempo che hanno fatto da colonna sonora alle vite di tanti di noi. Erano due amici che suonavano e sognavano di diventare famosi, corteggiavano le ragazze, si ubriacavano e si divertivano. Un bel giorno fu proprio il divertimento ad abbandonarli e gli eventi precipitarono fino ad arrivare ad un punto di non ritorno.
Alla fine del 1968 le cose non funzionavano più fra i quattro ragazzi. Si erano imbarcati nell’avventura della casa discografica Apple e avevano perso molto denaro per i diritti musicali nella controversia con la NEMS Enterprises, la società con cui avevano iniziato nel 1962. John aveva divorziato da Cynthia e aveva reso pubblica la sua relazione con Yoko Ono. L’ingresso di quest’ultima nelle loro vite era stato un vero tsunami, considerata la sua tendenza a non avere scrupoli nell’imporre la sua presenza fisica o nell’influenzare John nelle sue scelte. Paul aveva interrotto la sua storia con l’attrice Jane Asher e aveva iniziato a frequentare Linda Eastman, che sarebbe divenuta poi sua moglie.
Quello che negli anni a venire sarebbe stato considerato un vero capolavoro, Abbey Road, aveva avuto una tiepida accoglienza da parte dei critici. Il New York Times lo aveva definito “sincero, ma insulso”. Il pubblico invece lo promosse senza alcuna esitazione. Solo negli Stati Uniti divenne disco d’oro ancor prima di essere messo in commercio nei negozi. Fra i quattro ragazzi era però venuto meno l’entusiasmo e serpeggiava stanchezza e malumore. Nessuno di loro voleva tornare in tour.
La beatlemania aveva stritolato le loro vite e soprattutto quel pezzo della loro carriera che li aveva resi unici e indimenticabili: le esibizioni live. Non c’era nulla di artistico nel suonare davanti a folle oceaniche urlanti, con impianti di amplificazione che non reggevano il confronto. Era diventato stressante e persino rischioso. Eppure a tutti loro mancava tremendamente suonare dal vivo.
L’insofferenza che regnava era enorme, ma il debito che avevano accumulato per la Apple Records pesava sulle loro vite incredibilmente di più. “La Apple non veniva gestita, veniva sotterrata” spiegò Ringo Starr. La crisi economica divenne quel collante che riuscì a strappare loro quell’ultima produzione musicale. John aveva già espresso il desiderio di abbandonare la band, ma sulle prime gli altri non lo avevano preso troppo sul serio. Lui stesso non sapeva come uscirne. Era diviso fra le ingerenze di Yoko, che a più riprese gli faceva notare come il suo genio avesse poco a che fare con i Beatles e la difficoltà a separarsi da un passato che gli aveva dato tanto. Le droghe di certo non lo aiutavano e il suo nervosismo era a momenti insostenibile.
George Harrison invece covava un certo risentimento per essere sempre messo da parte, in particolare da Paul che continuava ad avere un atteggiamento direttivo nelle scelte artistiche, ostacolando la sua creatività. Fu lo stesso Paul a proporre di ricominciare ad esibirsi, ma George bocciò immediatamente il progetto: non aveva alcuna intenzione di lasciarsi risucchiare dalla beatlemania. Ripiegarono allora su un unico spettacolo. Si pensò ad un evento gratuito, magari in uno studio televisivo. Ben presto però anche quella idea fu accantonata.
Nell’attesa di trovare la location adatta, il 2 gennaio del 1969 si traferirono ai Twickenham Studios per le prove. Fu una decisione scellerata: era un posto freddo, umido e con un’atmosfera tetra e deprimente. Assunsero una troupe televisiva che avrebbe ripreso ogni momento del loro lavoro, anche se inizialmente non avevano ben chiaro cosa ne avrebbero fatto di quei nastri. Quelle riprese sono state finalmente messe a disposizione dei milioni di fans lo scorso 25 novembre nel documentario Get Back e sono una testimonianza preziosa non solo del momento drammatico vissuto dai Beatles, ma anche dell’immensità del loro talento naturale.
La caparbietà di Paul non fu particolarmente messa alla prova, almeno nelle prime giornate. Era convinto che suonando insieme avrebbero ritrovato nella musica la stessa la gioia di stare insieme che li aveva uniti ad inizio carriera. Non si accorgeva che intorno a lui tutto era cambiato e che i suoi tre amici si vedevano di già fuori dal gruppo. Era l’unico che continuava testardamente a lottare per tenere in piedi qualcosa che ormai non c’era più. “I Beatles erano tutto il mio mondo da quando avevo diciassette anni”. Aveva investito tutto se stesso in quell’avventura e non riusciva davvero a separarsene.
L’8 gennaio George fece ascoltare I me Mine presentandolo come un valzer heavy. Affascinato dal tempo 3/4 del Valzer dell’imperatore di Strauss guardando un documentario in tv, vi aveva costruito intorno un testo complesso, sull’identità dell’Io e sulla relatività che ci circonda, in parte ispirato dalle esperienze con gli acidi. Si intravedeva la sua ricerca spirituale, già tracciata in passato, che lo avrebbe accompagnato anche negli anni successivi.
Il 10 gennaio fu una giornata drammatica. Il clima era incandescente e George, il più frustrato di tutti, non riuscì più a reggere la tensione. I quattro lavoravano alla traccia Get Back e Paul aveva un’idea ben precisa di come dovessero suonare gli strumenti per creare qualcosa di diverso dal passato. Iniziò con il suo pressante entusiasmo ad incalzare George. Il quiet-Beatle provava ad inserirsi nella dinamica creativa fra lui e John senza essere ascoltato e non riuscì più a tollerare di essere manovrato fino a quel punto. Alla pausa pranzo dichiarò che lasciava la band, mise la chitarra nella custodia e lasciò gli studi. La sessione pomeridiana riprese senza di lui. I tre rimasti iniziarono a sfogare la rabbia suonando. Yoko si impossessò della sedia di Harrison ed al microfono iniziò ad urlare a squarciagola a modo suo. La frattura era ormai evidente.
Il giorno dopo George non tornò alla base e John suggerì di rimpiazzarlo con Eric Clapton. Nessuno di loro però pensava realisticamente di andare avanti senza di lui. Il 12 gennaio si incontrarono a casa di Ringo per provare a risanare le ferite, ma il meeting non andò troppo bene. All’indomani né George, né John si presentarono alle prove. Paul era distrutto e i suoi occhi pieni di lacrime sono testimoniati nel documentario Get Back. “Alla fine ne rimangono solo due” mormora avvilito.
Discutendo del suo rapporto con John chiarì che l’onniprensenza di Yoko aveva alterato il loro equilibrio creativo. Qualcosa era andato perduto. “Ci siamo allontanati non suonando più insieme” raccontava “Quando non si è più così vicini, qualcosa si perde. Yoko è fantastica e va benissimo. Vogliono solo stare vicini. Quindi penso sia stupido da parte mia o di chiunque altro cercare di dirgli ‘Non potete’. Farà senz’altro ridere tra 50 anni: ‘Si sono sciolti perché Yoko si è seduta su un amplificatore’”.
A posteriori potremmo dire che è andata più o meno così. A quel tempo però proprio Paul soffriva più di tutti, vivendo come una specie di tradimento il desiderio degli altri di mettere fine ai Beatles.
Il chiarimento ci fu, ritornarono in quattro e le prove ricominciarono. Il progetto dello spettacolo sembrò naufragare, ma non quello di produrre un nuovo album. Stanchi delle difficoltà logistiche degli studi Twickenham, decisero all’unanimità di trasferirsi nei nuovi studi della Apple. Sottovalutavano il fatto che gli studi da poco acquisiti non fossero assolutamente organizzati per registrare un disco. L’attrezzatura era carente e mal posizionata, non c’era isolamento acustico per impedire che rumori esterni entrassero nei microfoni e mancavano i buchi nel muro fra la sala di registrazione e quella audio per far passare i cavi elettrici.
I Beatles però non erano intenzionati a lasciare quel posto: si sentivano a casa. Ordinarono a George Martin di risolvere i problemi tecnici e decisero di ripartire da zero, accantonando il lavoro fino ad allora accumulato. Nella produzione delle nuove canzoni Martin venne messo da parte, sintomo anch’esso della drammatica crisi che aveva ormai esacerbato ogni rapporto. Lo consideravano come qualcuno che alla fine aveva costruito il proprio successo solo grazie al loro talento. John in particolare non gli aveva perdonato di aver inserito i brani strumentali nella colonna di Yellow Submarine, considerandoli spazzatura. Chiesero a Glyn Johns, che aveva lavorato con i Who, i Kinks e i Traffic, di assistere il loro lavoro in qualità di tecnico del suono.
La registrazione iniziò il 22 gennaio e il clima era finalmente rilassato. I brani prendevano forma: dalla gradevole Two of Us all’energica e rivoluzionaria Get Back. Riesumarono One After 909 che John aveva scritto quando aveva appena 15 anni. I’ve Got a Feeling è l’ultima vera collaborazione Lennon-McCartney ed è l’unione di due mezze canzoni incomplete. Harrison osservò che il riff di chitarra ricordava quello di Hard To Handle di Otis Redding, ma Lennon gli rispose che non gli importava. The long and winding road fu scritta da Paul pensando allo stile di Ray Charles “Il che probabilmente ha influenzato la struttura degli accordi, che è un pochino jazz.”. La strada lunga e tortuosa è quella dei desideri impossibili che non si realizzeranno mai. Un po’ come quello di Paul di riuscire a tenere in piedi i Beatles mentre tutto precipitava intorno a lui.
Across the universe è uno dei due gioielli dell’album insieme a Let it be. Quello che lo rende prezioso è senza dubbio il testo, uno dei migliori esempi di produzione poetica di Lennon. “Suoni di risate, ombre di vita squillano nelle mie orecchie aperte, mi incitano e mi invitano. Amore immortale senza limiti che splende intorno a me come un milione di soli. Continua a chiamarmi attraverso l’ universo”. È pura poesia che sta in piedi da sola anche senza melodia, come lo stesso John riconosceva.
Nella confusione di quei giorni rischiarono però seriamente di deturparla. John era deluso dalla registrazione, non riusciva ad intonarla come avrebbe voluto e Paul ebbe l’infelice idea di farlo accompagnare dal coretto di due fans incredibilmente stonate, reclutate all’esterno della Apple. Fu grazie a Phil Spector, a cui fu affidato il compito di ripulire e mixare le tracce per farne un vero album, che la canzone ritrovò la forma armonica e melodiosa che tutti noi conosciamo.
E infine c’è Let it be, il brano che non casualmente dà il nome all’intero album. “Una notte mi apparve in sogno mia mamma, che era morta dieci anni prima, anzi di più. Fu molto confortante, perché nel sogno mi diceva: ‘Andrà tutto bene’. Non sono certo che abbia usato le parole ‘Let it be’, così sia, ma il senso del suo avvertimento era quello. E fu quel sogno a spingermi a scrivere la canzone, partendo dal suo nome, ‘Mother Mary’, mamma Mary”.
John non apprezzava il pezzo e anche negli anni a venire non perse l’occasione per svilirlo. Anche George e Ringo lo accolsero con indifferenza. Con il suo sarcasmo John suggerì di sostituire ‘Mother Mary’ con ‘Brother Mal’ riferendosi a Mal Evans, il loro storico assistente. Negli anni fu attribuito al brano un senso religioso, sebbene più probabilmente fosse solo l’estremo tentativo autoconsolatorio di un uomo smarrito che vedeva drasticamente cambiata la propria vita.
Nonostante la produttività del momento, la tensione ricominciò a montare. John era nervoso e riversava sugli altri la propria insoddisfazione, spesso e volentieri stuzzicata da Yoko. Un giorno Ringo raccontò loro che la Apple aveva un fantastico tetto che avrebbero voluto trasformare in giardino.
Un momento dopo erano tutti lì ad apprezzare la location e progettare di suonarci dal vivo. “Nessuno l’aveva mai fatto” specificò George “Sarebbe stato interessante vedere cosa sarebbe successo, una volta che avessimo cominciato a suonare”. L’entusiasmo del vicinato fu enorme, così come le lamentele per il troppo rumore. La polizia intervenne in maniera molto cordiale, chiedendo di spegnere la musica e deludendo le aspettative di Ringo che sognava di essere trascinato via in manette.
Il rooftop concert resta comunque uno dei più importanti capitoli della storia del rock, più volte imitato da altre band negli anni successivi, dagli U2 agli Audioslave.
Nel gennaio del 1970 Phil Spector si mise all’opera per la post-produzione dell’album. Paul si era dedicato al suo album da solista ed era impensabile far uscire entrambi i dischi uno a ridosso dell’altro. I tre Beatles pensarono dunque senza alcuno scrupolo di chiedere a Paul di rimandare la pubblicazione del suo lavoro. Mandarono in spedizione Ringo a comunicarglielo e la discussione finì davvero male. “Gli urlai di tutto” ricordò Paul in un’intervista successiva. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Ormai era veramente tutto finito. Il mondo esterno però ancora non sapeva che i Beatles non esistevano più e nessuno di loro si preoccupava di comunicarlo. Fu Paul a farlo in un’intervista rilasciata al Daily Mirror per lanciare il suo disco solista. Quando lo apprese John si infuriò, perché sentiva di essere stato battuto sul tempo.
La favola finì ed iniziò la leggenda. La forza della loro musica ha reso la band immortale, ammaliando decine di generazioni. Resta altrettanto viva nella nostra memoria la storia di queste amicizie che, come in una favola senza lieto fine, bruciarono nella loro stessa passione.
ascolti
- Let it be – The Beatles (1970)
parole
- The Beatles. La vera storia- Bob Spitz (Sperling & Kupfer, 2014)
- Il libro bianco dei Beatles – Franco Zanetti (Giunti, 2015)
visioni
- Get Back – diretto da Peter Jackson, 2021