Musica e cinema sono due forme artistiche capaci di comunicare con immediatezza. Se le due arti si sposano alla perfezione e colpiscono in maniera sincronica i tuoi sensi, di sicuro sei davanti ad un’esperienza unica e indimenticabile. Esattamente come un concerto di Roger Waters. Il suo ultimo tour non è però una mera esperienza multisensoriale. Molti di coloro che hanno apprezzato Waters in passato, hanno sottolineato che questa volta gli effetti speciali sono forse minori. C’è però una maggiore intensità emotiva che ha il sapore del commiato. Resta comunque l’ennesimo tentativo di dare una strigliata all’umanità. E lo fa sempre a modo suo e con un’energia e una determinazione che fanno arrossire molti altri musicisti socialmente attivi. Waters dice come al solito ciò che pensa senza alcun filtro. Temerario e spavaldo difende a spada tratta fino all’ultimo secondo la libertà di opinione.
Il tour si chiama This is not a drill, ovvero ‘non è un’esercitazione’. E parla chiaro ancor prima di iniziare, perché è come la vita: se sbagli potresti non avere una seconda occasione. Sabato 29 aprile a Bologna c’è stata l’ultima data italiana del tour mondiale che probabilmente sarà quello conclusivo della sua carriera, come da lui stesso specificato. Deliziato dall’affetto e dall’accoglienza degli italiani, Waters ha ammesso sorridendo che ci sarebbe rimasto volentieri ancora, in questa città.
Lo spettacolo è costruito con meticolosa cura e ogni dettaglio ha un scopo ben preciso. Il palco in mezzo al palasport, come nella migliore tradizione pirandelliana, crea fin dapprincipio un legame intimo con il pubblico, non solo spettatore ma anche protagonista. I megaschermi sono disposti a croce affinché l’esperienza multisensoriale sia fruibile in ogni punto dell’arena. Le immagini non sono un semplice supporto, ma fanno parte a pieno titolo del messaggio di cui, con la potenza di uno sciamano, lui si fa portavoce.
Tacciare Waters di impicciarsi di politica, vuol dire non aver colto il suo messaggio e aver capito poco della sua natura. Lui rifugge la politica dei politici e dei governanti. E questo perché il suo concetto di politica è molto più aristotelico, poiché è profondamente radicato nel suo pensiero che chi governa dovrebbe pensare esclusivamente alla felicità e al benessere degli uomini. Un utopista, un visionario perennemente incazzato perché frustrato nel vedere che le soluzioni più semplici da una vita intera vengono ignorate per gli affarismi di pochi. Roger sta dalla parte dell’uomo libero e difende come l’ultimo dei samurai il diritto alla verità.
Durante la serata spiega con semplicità le proprie scelte artistiche sullo spettacolo, facendo un riferimento esplicito al suo amore per il cinema e citando Vittorio De Sica e il film Ladri di Biciclette. Ogni colore, ogni immagine, ogni effetto speciale, ogni singola parola che compare sui megaschermi si sposa con arte alla sua musica, conferendo un’incredibile potere comunicativo al suo messaggio.
I musicisti di cui si avvale sono eccezionali e per capirlo basta chiudere gli occhi (cosa che confido di aver fatto per alcuni istanti anch’io) e sentire vibrare il cuore per il talento e la passione che ci mettono nell’accompagnare il maestro Waters. Fra tutti spiccano il sassofonista Seamus Blake e le due incredibili coriste Shanay Johnson e Amanda Belair.
La scaletta della serata è sempre uguale a se stessa, perché è sempre lo stesso il messaggio che Waters vuole divulgare al mondo intero. È un messaggio di pace e di libertà. Eppure questo tour riserva qualcosa di ancor più prezioso che ha reso la serata commovente e indimenticabile. Waters si è raccontato con una semplicità disarmante, regalando pezzi della sua incredibile vita professionale e della sua preziosa storia personale.
Lo spettacolo si apre con la versione triste di Comfortably Numb, il riadattamento editato durante il periodo del lockdown. Le immagini sono le stesse del video e il sentimento di annichilimento è così forte da sentire il cuore in gola e sciogliersi in lacrime sullo splendido assolo vocale. Il viaggio inizia con la constatazione di quanto ormai siamo diventati indifferenti gli uni agli altri. Subito dopo Waters scuote la platea con Another Brick in the Wall parte 2 e 3. La scelta è azzeccata perché la hit attira come mosche al miele la platea che si scatena nel coro, ma lo schiaffo sono le frasi che compaiono sugli schermi “Siamo i buoni? Loro sono i cattivi? Chi dice così? I governi”. Siamo davvero un altro mattone nel muro? Siamo ancora come quarant’anni fa privati del nostro giudizio individuale, tanto da lasciarci manovrare come marionette per poter sopravvivere?
The Power that Be prosegue sulla stessa linea, cosicché dopo tanto scuotimento The Bravery of Being Out of Range sembra quasi un momento di incoraggiamento. “Noi stiamo al gioco col coraggio di essere fuori dal gioco”. Le immagini dei presidenti americani si susseguono da Ronald Regan a Joe Biden con il ricordo delle loro folli guerre. E ce n’è davvero per tutti,, dai repubblicani ai democratici, a testimoniare che dell’attuale assetto politico con forze contrapposte a lui non interessa proprio nulla. Ci crede ancora Waters nel potere del pensiero della gente, nella capacità orwelliana di svegliare le coscienze con le parole. E sembra davvero l’ultima chance di sopravvivenza per lo spirito di umanità e solidarietà nella società odierna.
The Bar è il brano attorno a cui ruota l’intero spettacolo e tutta la sua filosofia sottostante. La vita scorre senza che nessuno di noi possa fermarla. E forse bisognerebbe davvero sedersi in un bar per discutere, aprire il cuore e trovare una soluzione anziché azzannarci come cani inferociti.
Waters riprende a metà di questo cammino i suoi ricordi con i primi Pink Floyd e il pensiero non può che andare all’amicizia con Syd Barrett. Ci sono le immagini con le foto di repertorio e il susseguirsi di frasi che raccontano come nacque la loro amicizia e il desiderio di fare musica. C’è il ricordo tristissimo del momento in cui si accorse che Syd non era più fra di noi, perché qualcosa nella sua mente si era interrotto. E quello di quando lui stesso temette di subire una dissociazione mentale e perdere se stesso.
Tutto questo mentre scorrono le esecuzioni magistrali di Have a Cigar, Wish You Were Here e Shine on your Crazy Diamond (pts 6-9). E di nuovo piange. Io stessa mi sono sciolta in lacrime, perché è impossibile non provare commozione e compassione, tristezza e timore ripensando all’amaro destino di Syd, alla loro amicizia interrotta dalla malattia e al rischio che ognuno di noi corre nella vita che qualcosa all’improvviso faccia finire tutto.
Dopo averci fatto capire quanto la nostra esistenza sia maledettamente breve e fragile, il cammino riprende verso le nostre coscienze con Sheep. Waters spende poche parole per spiegare che il capolavoro da cui è tratto, Animals, è ispirato ad altrettanti gioielli come 1984 e La fattoria degli animali di George Orwell e Il mondo nuovo di Aldous Huxley. Incita il pubblico a belare sorridendo, perché non siamo che pecore e ce lo ricorda facendo sorvolare sulle nostre teste un’enorme ovino gonfiabile.
Ci deride, ci affronta di petto sempre con lo scopo di svegliare le nostre coscienze addormentate.
La seconda parte dello spettacolo si apre con In the Flesh e Run Like Hell e Waters incarna in maniera magistrale il ruolo di Pink, il protagonista di The Wall quando, divorato dalla sua follia, domina la platea e riversa su di essa tutta la sua rabbia repressa. È il delirio, il trionfo narcisistico dell’ego e della paranoia portato fino a livelli estremi. Correre: bisogna correre via a gambe levate per salvarsi e sperare che basti.
Dopo aver ancora una volta turbato l’animo dello spettatore con la forza di un bulldozer, riparte con Deja Vu, la lacerante narrazione contro ogni male e contro ogni guerra. E ancora una volta sono lacrime, perché è impossibile restare indifferenti a quella nenia malinconica unita alle immagini di distruzione, di bambini e donne straziate dall’orrore della guerra. Waters ricorda che le tremende immagini sono fornite da Julian Assange, del quale da sempre difende la causa di liberazione.
È un’occasione per ricordarci quanto la libertà di pensiero e di parola sia fondamentale per l’individuo per avere potere sulla propria esistenza.
Is This the Life We Really Want? è probabilmente l’apoteosi della serata, il momento più importante in cui in maniera diretta e senza più preamboli Water interroga le nostre coscienze. È proprio questa la vita che vogliamo? Una vita in cui voltiamo le spalle al dolore dell’altro nella totale indifferenza, dimenticando di essere esposti anche noi allo stesso fragile destino? In cui crediamo a ciò che ci viene raccontato senza nemmeno interrogare il nostro pensiero? Una vita in cui il dolore di un bambino conta meno della ricchezza di pochi? Stiamo davvero diventando quelle ombre che all’inizio accompagnavano le note di Comfortably Numb? Siamo davvero confortevolmente indifferenti alla realtà esterna al nostro piccolo mondo?
Money ci ricorda che poi alla fine tutto ruota intorno al denaro. Musicalmente è l’unico momento della serata in cui si sente la mancanza della dinamica chitarra di David Gilmour, sebbene Waters e la sua band ne facciano un’onorevole versione. E poi arriva Us and Them. A quel punto non ci sono più le lacrime, ma un senso di toccante sconforto e una commozione che strazia il cuore. Siamo davvero noi da una parte e loro dall’altra? Il nostro cuore è di pietra o c’è ancora speranza per l’umanità? E si va ancora avanti da Any colour you like a Brain Damage fino ad Eclipse per riaffermare quanto la nostra esistenza sia appesa ad un filo. L’ultimo estremo tentativo per invitarci a dare una senso al nostro prezioso tempo ed uscire definitivamente dall’egocentrismo.
C’è spazio anche per Two Sun in Sunset, che sigilla in maniera spettacolare tutte le nostre paure più ancestrali sulla guerra e sul rischio nucleare. Le versione proposta è quella del Lockdown Session, decisamente superiore in intensità emotiva a quella di The Final Cut. C’è un sentimento di primordiale compassione che la pervade: c’è pietà per il genere umano, per la nostra ingenuità mentale e per i rischi assurdi a cui ci esponiamo senza esserne consapevoli.
Lo spettacolo si chiude con una reprise di The Bar. Ricorda l’affetto per Bob Dylan, parla di sua moglie e del suo fratello maggiore deceduto. Ci sono le immagini di un Roger bambino a chiudere la serata, quasi a sigillare un viaggio che si conclude con un ritorno alle origini. Per l’occasione Waters e la band brindano col pubblico. È un modo per ricordarci che se affrontassimo tutte le questioni dalla più piccola alla più complessa con maggiore semplicità d’animo le soluzioni sarebbero immediate.
Lui è profondamente convinto che le trattative diplomatiche sono l’unica strada per risolvere i contrasti e suggerisce che i soldi che il nostro paese spende in armi potrebbero essere usati per ammodernare gli ospedali calabresi. Lo sa bene Waters di essere un utopista, ma ci ha avvertito e ora tocca a noi credere o meno in quello che ci raccontano. In fondo l’unica verità assolutamente condivisibile è una sola: non esiste una guerra giusta. Pensare che le armi risolvano conflitti economici, etnici e culturali è la più grande delle bugie che continuano ancora a raccontarci a cui dovremmo smettere di credere.
Roger Waters compirà a settembre ottant’anni, ma ha lo sguardo pulito e incazzato di un ragazzino.
Crede come il primo giorno nelle cose che dice, ci mette entusiasmo e ha una vena creativa musicale da fare invidia a qualunque musicista. Quello che ha fatto con i Pink Floyd e da solista per il rock mondiale basterebbe per farlo assurgere all’olimpo dei più grandi di sempre. Ma Waters è qualcosa di più: è una mente illuminata. Come nella migliore tradizione culturale ottocentesca, lui crede con forza nel potere della parola, della mente e dell’individuo. La sua testimonianza musicale, culturale e di vita è un dono prezioso che nessuno di noi dovrebbe sprecare. E non ci basterà una vita per ringraziarlo di quanto ci ha donato in tutta la sua carriera.