E’ da parecchio tempo che il mondo della musica ha abbandonato l’arte per il business, ma adesso si sta davvero esagerando. Nonostante due anni di fermo dovuti ad una pandemia mondiale che forse avrebbe dovuto insegnare qualcosa, i prezzi dei biglietti dei concerti sono risaliti alle stelle. E oltretutto siamo ormai al bagarinaggio legalizzato (ma i ticket dove li prendono?), con le rivendite più o meno ufficiali sul web e altri canali in cui fluisce il denaro. We’re Only in It for the Money, per dirla con Frank Zappa che ci aveva visto chiaro da subito.
Oggi ci vogliono 200 euro per andare a sentire Peter Gabriel all’Arena di Verona (posto peraltro magnifico che li vale), da 100 a 150 per Roger Waters all’Unipol Arena di Bologna (un po’meno), da 100 fino a un massimo di 700 (pacchetto vip) per Bruce Springsteen a Ferrara. Per stare in piedi in un parco almeno tre ore, considerata la durata media dei set del Boss.
Oltretutto, i prezzi dei biglietti di Bruce negli States che partivano da una media di 200 dollari, sono arrivati fino a cifre folli che oscillavano dai 1000 ai 5000 dollari a concerto con la E Street Band. Mica male per uno che ha sempre cantato l’epica dei poveri e dei diseredati, con un patrimonio che dopo la vendita dei diritti si aggira verso i 1000 milioni di euro. Contraddizioni che non si possono ignorare, con tutto il bene che vogliamo al cantore delle Backstreets e delle Jungleland. Forse, visto il probabile appressarsi della fine della E Street, il management vuole spremere il limone fino all’ultimo. Suscitando le ire dei fan storici come quelli della ‘zine che delle “strade secondarie” porta il nome .
I Pearl Jam che negli anni Novanta si erano battuti furiosamente contro la Ticketmaster in un periodo di ascesa allarmante dei prezzi presentandosi persino davanti al Congresso, sembrano aver deposto le armi a favore di un sistema tremendamente difficile da controllare. È di questi giorni la notizia delle nove date negli Stati Uniti fra fine agosto e inizi settembre. Avevano annunciato che avrebbero tenuto sotto controllo i prezzi dei biglietti. Hanno organizzato la solita lotteria con il Ten Club, che per inciso costa 45 dollari l’anno. I pochi estratti hanno pagato in media 125 dollari a biglietto, ragionevole ma per alcuni molto alto rispetto al precedente del 2020. Tutti gli altri in fila virtuale con Ticketmaster che spinge il prezzo anche fino a 1000 dollari a biglietto. Insomma, il fallimento totale di tutto ciò che il PJ continuano imperterriti a professare da anni.
L’unico che mantiene una certa coerenza è Robert Smith che ha calmierato i prezzi, assicurandosi che i biglietti dei suoi concerti non superassero i 40 dollari. E, moltiplicato per cinque o seimila, non è che ti riduca in miseria. Ha utilizzato il sistema fanbase di prevendita, così da tutelare i sostenitori più affezionati. Ma soprattutto ha obbligato la Ticketmaster a restituire cinque dollari a testa perché non aveva rispettato gli accordi previsti sulle tasse. Non è riuscito tuttavia a mantenere il controllo totale su tutti i biglietti, perché ovviamente un minimo di bagarinaggio virtuale c’è stato, ma lui coraggiosamente ha invitato attraverso i social i suoi fan a non acquistare quei tickets.
Dunque, se vogliono, gli artisti possono imporsi. Ma la maggior parte non lo fa, accontentandosi dello status quo, dopo magari aver predicato rivoluzioni e rivolte.
Discorso a parte meritano le strutture e le infrastrutture. In Italia, eccettuato il Parco della Musica a Roma, non abbiamo spazi di una certa dimensione progettati per i concerti. Ci si ostina ad utilizzare palazzetti e forum dalla tremenda acustica, oltretutto contornati da bancarelle che vendono cibo e bevande a prezzi esorbitanti, servizi igienici da ispezione dei Nas. Aggiungiamoci prezzo del viaggio, eventuale pernottamento (a meno che non vogliate farvi 12 ore in pullman che so, da Brindisi a Bologna) e si nota come oggi per frequentare i concerti sia necessario avere un portafoglio a fisarmonica.
All’estero, senza andare molto lontani, per esempio in Svizzera, ci sono impianti adeguati, servizi bar e cucina a prezzi ragionevoli, parcheggi. Manca solo di essere accompagnati per mano alla propria auto. Qui da noi per uscire dal Circo Massimo o dall’Autodromo di Imola bisogna infilarsi in un girone dantesco di due ore. Per non parlare dell’impossibile organizzazione di Imola dove sessantamila persone e oltre sono costrette ad andarsene da una sola uscita.
Lasciamo stare poi l’idea di organizzare concerti a luglio su piste di asfalto che danno la gradevole sensazione di essere precipitati all’inferno. Un bel prato no? Uno stadio? E’ troppo complicato?
Sembra evidente che, con qualche lodevole eccezione (una Barley Arts, per esempio che si occupa anche del benessere dello spettatore e non solo delle sue orecchie) la politica corrente sia “prendi i soldi e scappa”, incassa il più possibile tanto gente che paga la trovi sempre. Che ti importa di fidelizzare? E i concerti stanno diventando un affare da ricchi, con i costosissimi pacchetti vip che comunque si vendono, si vendono, segno che chi sborsa c’è comunque.
Pensate all’Ohana festival organizzato da Eddie Vedder in California. L’intero weekend Ultimate Vip comprende tre ingressi, vitto e alloggio (spero almeno sia una suite reale) e gadget come vinile e poster firmato dallo stesso Vedder. Tutto alla modica cifra di 9950 dollari più tasse. Potremmo pensare che sono realtà che non ci toccano, che qui in Italia l’unitrust sui prezzi dei biglietti fa ancora il suo dovere e in parte è ancora così. Ma il sistema di prezzo alla vendita dinamico è dietro la porta e potrebbe approdare anche da noi ancor prima che ce ne accorgiamo. D’altronde è solo da qualche anno che vediamo questi pacchetti vip o i posti pit per stare in prima fila. I più anzianotti di noi ricordano le file alla rivendita per comprare un biglietto e che si spingeva per arrivare davanti al palco. Era qualcosa di parecchio divertente, che non va più di moda e di sicuro non conviene a chi ci lucra.
Mala tempora currunt, dicevano i latini. Ma oggi, più di duemila anni dopo, scorre anche il denaro (nelle mani delle organizzazioni) a fiumi, una corrente che esce dalle nostre tasche di appassionati e va ad ingrassare lucrosi affari, mentre artisti che qualche decennio fa facevano la fame sono diventati milionari avidi.
Qualcuno si impone, ma sembra sempre di più una voce che predica nel deserto. Robert, almeno, si prende Cure di noi.
(in collaborazione con Patrizia Bruno)