Un’opera d’arte invecchiando manifesta il suo vero valore, poiché se gli anni passano e comunica ancora con le generazioni successive, di sicuro ha vinto la sua scommessa. Let’s Dance, uno degli album più popolari e al tempo stesso discussi di David Bowie, ha compiuto i suoi primi quarant’anni il 14 aprile scorso e nonostante i pareri contrastanti mantiene ancora alta l’attenzione su di sè, come un vero cavallo di razza. La storia inizia nel lontano 1982, quando Bowie entrò in conflitto con la sua etichetta RCA. Non aveva affatto digerito la modalità in cui avevano trattato il suo catalogo musicale e in scadenza di contratto iniziò a guardarsi intorno.
Era per lui un periodo difficile: l’omicidio di John Lennon avvenuto solo due anni prima lo aveva profondamente colpito, al punto da fargli annullare il tour con gli Scary Monsters e ritirarsi in Svizzera. Non fu comunque un periodo improduttivo: recitò da protagonista con Ryūichi Sakamoto nel film Merry Christmas Mr. Lawrence e con Susan Sarandon e Catherine Deneuve in Miriam si sveglia a mezzanotte. E registrò insieme ai Queen la celeberrima Under Pressure. Eppure, mai come in quel periodo, fu in odore di cambiamento. La sua indole indomita era determinata a stravolgere ancora una volta gli equilibri raggiunti per una nuova rivoluzione copernicana all’interno della sua arte. Attese che scadesse il contratto con il suo impresario, Tony Defries, per avere il pieno controllo della sua produzione e si mise all’asta fra le etichette più acclamate.
Nel frattempo contattò il suo storico produttore Tony Visconti e gli disse di tenersi pronto, poiché era intenzionato a rientrare in studio per dicembre. Accadde però che in un hotel di New York incontrasse un altrettanto talentuoso musicista, Nile Rodgers. I due iniziarono a chiacchierare accorgendosi di amare entrambi le stesse icone del blues e del R&B. Bowie ebbe l’intuizione di lavorarci insieme e senza alcun ripensamento mise da parte Visconti, il quale ci rimase malissimo e non ne fece affatto mistero. Bowie stava finalmente per approdare ad una nuova etichetta ed era ad un passo dal recuperare i diritti sulle sue canzoni. La decisione di produrre un successo commerciale fu quasi un pedaggio obbligato da pagare per conferire stabilità alla nuova situazione, anche e non ultimo dal punto di vista economico. Chiese perciò a Rodgers proprio quello che gli veniva meglio fare, ovvero creare un successo.
A Montreux suonò per lui le sue nuove canzoni con una chitarra a dodici corde, ma decise che non avrebbe suonato nemmeno uno strumento per quell’album. “Questo è il disco di un cantante” ebbe a dire. Per la prima volta da Space Oddity, non diede continuità alla sua squadra di musicisti, reclutandone di nuovi. Ingaggiò un giovane e sconosciuto chitarrista texano, Stevie Ray Vaughan, che aveva sentito suonare al festival jazz di Montreux quello stesso anno. “Stevie è pura dinamite. Pensa che Jimmy Page sia un modernista. Stevie è rimasto ad Albert King. È un mostro” raccontò lui stesso. Gli altri musicisti furono invece scelti da Rodgers: Bernard Edwards e Tony Thompson degli Chic suonarono in alcuni brani e i fratelli Simms che avevano già collaborato in diversi suoi progetti fecero da coristi. C’era poi la sezione dei fiati con artisti che avevano collaborato in passato con Diana Ross e Boz Scaggs. Nile la definì una “big band rock moderna” e lo stesso Bowie era esaltato al pensiero di costruire qualcosa che avesse il sapore del vecchio rock’n’roll che tanto amava.
L’album fu registrato in soli venti giorni agli studi Power Station di New York. Bowie voleva che si procedesse velocemente e Rodgers si accodò apprendendo un metodo di lavoro che si è portato dietro per il resto della sua carriera. “I musicisti erano veramente stimolati dal fatto di procedere velocemente e ottenemmo grandi prestazioni. Quasi tutte le parti furono registrate al primo tentativo”. Ne venne fuori un lavoro con le caratteristiche della dance di tipo europeo, ma che profumava intensamente di blues, grazie agli assoli di Vaughan. Per lui fu un trampolino di lancio, poiché di lì a poco firmò un contratto con la Epic, proprio sull’onda del successo di Let’s Dance.
A quel punto Bowie aveva scelto la nuova etichetta, decidendo di firmare un contratto con la EMI, la stessa per cui aveva collaborato con i Queen. Era tutto pronto all’uscita dell’album e partì per l’Australia per girare i video dei primi due singoli di lancio, Let’s Dance e China Girl.
Dire a posteriori che l’album ebbe successo non definisce esattamente l’impatto mediatico che ebbe l’evento. Fu il primo album di Bowie a raggiungere la vetta delle classifiche negli Stati Uniti e Billboard scrisse che era “la musica più fruibile di Bowie dopo anni”. Fu un’esplosione, un trionfo commerciale a cui seguì il maestoso tour mondiale Serious Moonlight. Vaughan non fece parte del carrozzone. A dire il vero la sua presenza era prevista, ma la sua abitudine alla cocaina creò più di qualche perplessità in Bowie, che ricordava ancora i problemi di dipendenza da cui si era faticosamente liberato trasferendosi a Berlino. Gli accordi saltarono e fu sostituito da Earl Slick che dovette chiudersi in una stanza di hotel e imparare velocemente le trentuno canzoni previste per le esibizioni.
L’album si apre con Modern Love, un prodotto musicalmente edulcorato e persino troppo perfetto, il cui riff di chitarra introduttivo ha tuttavia un potere talmente esplosivo che vale quasi quanto il resto della canzone. C’è un contrasto molto netto fra la melodia orecchiabile incredibilmente ben orchestrata e le liriche che richiamano a tematiche spirituali sul rapporto fra Dio e uomo. “L’ amore moderno mi passa accanto. L’amore moderno prosegue il suo cammino. L’amore moderno mi porta in tempo in Chiesa… ripone la mia fede in Dio e nell’uomo. Dio e Uomo, nessuna confessione. Dio e Uomo, nessuna religione. Dio e Uomo, non credere nell’amore moderno”.
Non rientrano certamente fra le liriche più belle e profonde di Bowie nonostante il tema affrontato, ma risultano tremendamente semplici e dirette, capaci di colpire come un pugno nello stomaco. In poche strofe minimali, disegnate a caratteri cubitali, Bowie capovolge completamente il concetto di religione convenzionalmente diffuso, erigendosi a portavoce di un messaggio di amore universale. Il brano era uno dei preferiti di Nile Rodgers che lo definì “Un vecchio rock da bettola di infimo ordine, con tanto di pianoforte martellante in stile Little Richard, al quale si sovrapponeva un sofisticato arrangiamento jazz nella sessione di fiati”. Fu il terzo singolo dell’album e quello di minor successo. Fece parte della breve scaletta per il Live Aid e nel 1987 fu usato come colonna sonora di uno spot che Bowie registrò con Tina Turner per la Pepsi.
Il secondo brano è la storica China Girl, scritta a quattro mani con l’amico Iggy Pop che l’aveva cantata e pubblicata qualche anno prima. Molto si è detto di questo brano, che racchiude liriche bellissime cariche di un simbolismo che ancora oggi offre spunti di rilfessione. Musicalmente è il biglietto da visita di Stevie Ray Vaughan. È incantevole come sia riuscito a disciplinare il suo stile selvaggio in questo album, dando forma ad assoli spesso brevi ma tremendamente corposi e appassionati. Fu il secondo singolo accompagnato dal celebre video per anni censurato da MTV per la scena di sesso sulla spiaggia. “La scena fu girata alle cinque del mattino, l’acqua era gelida ed eravamo osservati da un’intera troupe cinematografica e da occasionali passanti che facevano jogging. Non era proprio la situazione più romantica” raccontò molti anni dopo la modella Geeling Ng protagonista del video insieme a Bowie.
Il terzo brano è l’omonimo Let’s Dance, che da solo vale il prezzo dell’ album.
La versione primordiale voce e chitarra acustica somigliava molto a un brano folk. “Pensai che fosse veramente bizzarra, ma lui era convinto che sarebbe diventata un grande successo e allora cominciai a lavorarci” disse Rodgers. In verità fu lui a dargli quella coloritura dance che l’ha consegnata alla storia. L’atmosfera del brano richiama molto gli Chic e non solo per l’andamento ritmico. A metà della canzone c’è quello che Rodgers chiama “breakdown”, una caratteristica di brani come Good Times.
Si tratta di un momento di sospensione in cui gli strumenti escono di scena uno alla volta per lasciare solo basso e batteria. Un’altra caratteristica che rende incisivo il brano è indubbiamente la chitarra di Stevie Ray Vaughan, che regala quella coloritura blues che lo rende unico e speciale. “Dopo quel terrificante assolo sulla title track è venuto lemme lemme in sala regia e con un sorrisetto canzonatorio ha detto ‘Questo è per Albert’, sapendo perfettamente che io avrei capito che l’origine di quell’assolo era da far risalire al modo di suonare di King” raccontò lo stesso Bowie.
E se la musica mantiene un’atmosfera suggestiva e trascinante come la più navigata delle melodie dance, il testo mantiene una tensione quasi drammatica. “Balliamo, perché la paura
ti farebbe perdere la tua grazia. Balliamo, perché la paura è tutto stanotte. Danziamo, potresti guardarmi negli occhi. Danziamo, sotto il chiaro di luna, questo chiaro di luna così serio”. Sono versi semplici ed immediati che trasmettono un sentimento di inevitabile perdizione in cui si avverte un paranoico senso del pericolo, capace di minacciare anche l’amore più grande. “Si tratta evidentemente di un brano ballabile, che però contiene una sorta di disperazione, di amarezza” specificò lo stesso Bowie. Il video contiene un messaggio di tipo socio-politico e racconta di una coppia di giovani aborigeni che subisce l’influenza della mentalità commerciale occidentale. Il tema della prevaricazione di una cultura sull’altra era molto sentito e peraltro presente anche nella traccia precedente, China Girl. L’emblema del video sono le costose scarpette rosse, status symbol desiderato e successivamente distrutto dagli stessi ragazzi, come a significare un ritorno e una difesa delle proprie radici culturali.
A dirla tutta, l’album sarebbe potuto finire con le prime tre tracce ed essere comunque un successo eccezionale e passare alla storia del pop-rock. Ed invece si allunga con brani piuttosto anonimi come Without You, resa preziosa solo dal basso di Bernard Edwards. Oppure la cover dei Metro, Criminal World, la cui scelta fu forse quella di richiamare tematiche care a Bowie come quella di una sessualità libera. La cosa più impressionante del brano rieditato è sicuramente l’assolo di Vaughan, selvaggio e tremendamente sensuale. Un assaggio di quello che questo straordinario chitarrista avrebbe regalato da lì in avanti. Anche Shake it, la traccia con cui si chiude l’album, è un riempitivo superfluo che nulla aggiunge e nulla toglie e di sicuro non mantiene gli standard dei brani precedenti. Una dance funky piacevole ma destinata a rimanere nel dimenticatoio.
Storia a parte è quella di Ricochet, il brano in cui è possibile ritrovare la parte più sperimentale del Bowie che tutti conosciamo. Un ritmo martellante, che richiama quasi una marcia e si colora di una sezione swing di fiati, fa da cornice ad uno dei testi più criptici dell’album. “Il rumore del tuono, il suono dell’oro. Il rumore del diavolo che infrange la parola data. Si diffonde. Queste sono le prigioni, questi i crimini. Insegnando a vivere in un nuovo modo violento”. C’è qualcosa di inespresso nel valore potenziale del brano, che lo rende non del tutto convincente e lo stesso Bowie non ne era soddisfatto. “Il ritmo non era quello giusto. Non ‘girava’ come avrebbe dovuto, le sincopi erano sbagliate. Aveva un’andatura goffa; avrebbe dovuto essere più scorrevole. Ci aveva messo le mani Nile, ma non era come l’avevo in mente quando avevo scritto il pezzo”.
Infine c’è la riedizione di Cat People (putting on fire) il brano che faceva parte della colonna sonora de Il bacio della pantera del 1982. La musica è opera di Giorgio Moroder, che Bowie aveva conosciuto nel 1976 quando aveva collaborato alla pubblicazione di The Idiot di Iggy Pop. Indubbiamente la versione con Moroder è più adatta come colonna sonora del fantahorror che ha come protagonista la bellissima Nastassja Kinski. Nella nuova versione fa la differenza la chitarra infuocata di Vaughan, che sguinzaglia un assolo selvaggio e lussurioso. Laddove negli altri brani il buon Stevie aveva dominato in nome di una coralità il suo istinto blues, in questo brano si lascia andare folgorando in pieno l’ascoltatore con il suo sconfinato talento. Alcuni critici lodarono la carica del solo di Vaughan, che imprime al brano una caratteristica più rock e aggressiva, ma sottolinearono come la performance vocale di Bowie fosse inferiore in intensità rispetto alla quella con Moroder.
Let’s Dance ha venduto più di dieci milioni di copie in tutto il mondo ed è l’album più commercializzato di Bowie. Eppure all’epoca venne quasi stroncato da alcuni critici, che lo trovarono superficiale, troppo levigato e meno creativo rispetto ai lavori precedenti. A posteriori anche queste descrizioni non sono fuori luogo, ma possiamo intuire oggi meglio di allora che fu un’operazione del tutto volontaria e consapevole. Bowie voleva un prodotto commerciale, aveva bisogno di riempire le casse svuotate da precedenti dubbie operazioni mangeriali sui suoi introiti e per ultimo voleva definitivamente approdare al ruolo di imperatore del rock mondiale, conquistando i mercato americano e consacrandosi definitivamente in quello europeo. Da questo punto di vista, fu uno sicuramente un successo.
Quello che Bowie forse ignorava all’epoca, era che si sarebbe portato dietro la maledizione di tutti i successi stratosferici, ovvero quel vuoto che persino per la sua incredibile vena creativa fu difficile da riempire in seguito. “All’epoca, Let’s Dance non faceva parte del mainstream. Era praticamente un nuovo tipo di ibrido, usando la chitarra blues-rock contro un formato dance. Non c’era nient’altro che suonasse davvero così in quel momento. Quindi, sembra commerciale solo col senno di poi perché ha venduto così tanto. È stato fantastico a modo suo, ma mi ha messo in un vero angolo in quanto ha fottuto con la mia integrità” confessò molti anni dopo.
Non fu comunque un fuoco di paglia: Let’s Dance è ancora oggi inserito nei 500 album di tutti i tempi dalla rivista NME e secondo Billboard ha influenzato la musica dance alternativa dei successivi trent’anni. Per dirla con le parole stesse di Modern Love “è solo il potere di affascinare, sono sdraiato sotto la pioggia ma non dico mai ciao-ciao”.
Come ogni lavoro di Bowie, anch’esso rappresenta quella sua infinita capacità di alterare la cultura pop in una dimensione evolutiva e di perenne cambiamento.
ascolti
- Let’s Dance – David Bowie (1983)
parole
- Bowie: l’enciclopedia definitiva – Nicholas Pegg (Arcana editore) 2012
- David Bowie: fantastic voyage – Francesco Donadio (Arcana editore) 2016
visioni
- Il bacio della pantera – regia di paul Schrader, 1982