La scena musicale del rock degli anni novanta è ricca di anime inquiete, comete luminose capaci di accecare con la loro luce per spegnersi e lasciare dietro di sè solo una scia di amarezza e ricordi. Shannon Hoon nasce il 26 settembre del 1967 in Indiana, a Lafayette e cresce nella vicina città di Dayton. Suo padre era un muratore e sua madre gestiva un bar. Era un ragazzino vivace e iperattivo e la madre decise di canalizzare quella sua energia verso lo sport. All’età di sei anni prese lezioni di karate ed a nove era già cintura nera. Più avanti brillerà negli sport passando dal football al wrestling, tanto da far pensare alla genitrice che avrebbe avuto un futuro da allenatore. Aveva determinazione da vendere ed a scuola vinse un torneo di wrestling nonostante il dolore per un piede rotto. Qualche dubbio sua madre iniziò ad averlo quando all’età di otto anni lo ritrovò in garage con un amichetto, mentre provava ad imitare i Kiss completo di chitarre, trucco e abiti ricavati con le divise del karate.
Probabilmente lei sua avrebbe voluto che Shannon proseguisse gli studi per dedicarsi allo sport, ma i suoi voti scolastici erano così bassi che conseguì il diploma ma non ebbe accesso ad alcuna borsa di studio, nonostante gli eccellenti risultati sportivi. A quel punto si avvicinò più seriamente alla musica e incontrò Mike Tate, il cantante di un gruppo locale, la Whitehawk Band. “Ero così invidioso che lui fosse il cantante di una band. Ho scritto una canzone e gliel’ho data e lui mi ha detto ‘Non darla a me, cantala tu’” raccontò successivamente. Si riunì con un suo compagno di scuola, Mike Kelsey e iniziò a suonare in garage. Fu in quel periodo che compose la sua prima canzone, Change.
Era un’anima inquieta e ribelle la sua, segnata dalla separazione dei genitori avvenuta all’età di sedici anni. “Ho sempre ritenuto sacra l’unione e l’armonia. La mia famiglia si è divisa quando avevo sedici anni, il momento in cui dovresti decidere cosa vuoi fare della tua vita”. Un trauma che lo aveva segnato, spingendolo subdolamente in una spirale depressiva negli anni successivi.
Shannon si mostrò subito un tipo imprevedibile e quando iniziò ad esibirsi, non sapevi mai cosa aspettarti. Quando suonarono ad un ballo di fine anno scolastico, iniziò a spruzzare acqua sul pubblico cosicché stelle filanti di carta crespa molliccia cominciarono a gocciolare sugli smoking bianchi degli invitati col risultato che la sua band dovette accollarsi le spese di lavanderia dei capi rovinati. “Sapevo di essere all’angolo. Se non ce l’avessi fatta con la musica, non ce l’avrei fatta per nulla” raccontò più avanti. Ed in effetti di lì a poco iniziarono i problemi con l’alcol, le droghe e i guai con la polizia locale. Ogni volta che sua madre sentiva passare un’ambulanza e lui non era in casa, pensava sempre che stesse trasportando il figlio in fin di vita. E così in una sorta di scelta obbligata, a soli 18 anni si trasferì a Los Angeles. “Ho iniziato con le droghe quando ero nell’Indiana. Andare a Hollywood per la gente poteva sembrare peggio, ma ci sono tante cose lì che mi possono dare la stessa eccitazione delle droghe”. Quella scelta però segnò una vera svolta nella sua vita.
Fu ad una festa che Brad Smith e Roger Stevens gli sentirono suonare la sua canzone e gli proposero di mettere su una band. Nacquero così i Blind Melon. Leggenda racconta che il nome fosse un appellativo che suo padre usava per additare gli hippy. Secondo l’Urban Dictionary la definizione del nome indica “una persona che vive la vita ignara delle norme sociali, un anticonformista, uno spirito libero, una mente cieca”. Qualcuno che somiglia tremendamente a quella mente inquieta, libera e pericolosamente senza freni che era Shannon Hoon.
Un avvocato, Dennis Ryder, diede loro fiducia e si premurò di inviare i loro demo alle etichette discografiche più importanti e riuscì anche ad organizzare alcune audizioni, esperienze che Shannon visse con enorme senso di frustrazione. “La cosa più sgradevole che io abbia mai fatto. Preferisco suonare in un bar senza nessuno, piuttosto che per tre uomini in giacca e cravatta che cercano di capire da dove vieni”
Shannon era solito frequentare persone che provenivano dalla sua piccola cittadina nativa e fra questi c’era un certo Axl Rose, il frontman dei Guns N’Roses all’epoca già negli allori delle vendite e del consenso del pubblico. Axl era di qualche anno più grande e aveva frequentato le scuole con sua sorella; i due legarono immediatamente e trascorrevano parecchio tempo insieme. La collaborazione artistica e musicale fu del tutto inevitabile. Axl chiese a Shannon di incontrarsi negli studi dove con la sua band stava registrando Use your illusion. Lo invitò a cantare con lui e registrarono insieme diverse tracce dell’album fra cui The Garden e Don’t cry, in cui compare anche nel famoso videoclip.
Shannon era molto emozionato dalla possibilità di cantare al fianco di un amico che era già una celebrità. Tuttavia col passare del tempo iniziò a provare fastidio nell’essere continuamente associato ad Axl e alla loro musica. Desideroso di affermare se stesso, in quello che era il suo sogno di rivalsa contro tutti coloro che non avevano mai creduto in lui, cercò subito di rimarcare il proprio territorio. “Penso che quando le persone ascolteranno la nostra musica, capiranno quanto siamo diversi dai Guns N’Roses. Non sto dicendo che siamo migliori o peggiori, ma che facciamo un tipo di musica completamente diverso”.
E diversi lo erano per davvero. Conservavano l’energia del rock, ma avevano il gusto per la melodia e per le ballate folk. Furono contesi fra la Capitol Records e la Epic Records e nel 1991 si accordarono con la prima. La firma del ricco contratto fu festeggiata sul tetto della Capitol con bottiglie di vino stappate per onorare l’evento. La scena è ripresa in All I Can Say, film documentario del 2019 dedicato alla sua vita. Nel video, Shannon non beve con gli altri e commenta di avere un brutto problema con l’alcol. Ci provava ad avere il controllo perché, nonostante la devastante dipendenza, desiderava moltissimo fare musica, farla al meglio e dimostrare il proprio valore.
“C’è gente che spende una vita per entrare nel mercato musicale e invece noi ci siamo trovati nel posto giusto e nel momento giusto” disse più avanti. E in effetti le cose andarono piuttosto veloci.
I Blind Melon decisero di lasciare Los Angeles e si ritirarono a Chapel Hill nel North Carolina, attratti dalla scena musicale locale. Affittarono una casa che soprannominarono Sleepyhouse, come una delle canzoni del loro album di debutto. Il bassista Brad Smith ricordò più avanti “Non andavamo in giro in città, perché non c’era niente da fare. Quindi abbiamo suonato musica, fumato erba ed eravamo tutti appassionati di pittura. Era un ambiente molto strano, Shannon ha sigillato le finestre ed era sempre buio dentro con le candele”.
Registrarono le canzoni al London Bridge Studio di Seattle all’inizio del 1992 e la produzione fu affidata a Rick Parashar che aveva da poco prodotto Ten, l’album di debutto dei Pearl Jam e il progetto del supergruppo Temple of the Dog. I Blind Melon si tuffarono in uno stile alternativo che mescolava abilmente il rock al folk arricchendosi di coloriture psichedeliche. Una sorta di tentativo di riallacciarsi a temi musicali hippy della California dei tardi anni sessanta. Le canzoni suonano quasi in presa diretta e c’è davvero poca post-produzione sui brani, come a mantenere sonorità grezze e vitali. Le liriche sono in alcuni momenti amare ed esprimono un importante disagio personale e al tempo stesso generazionale. Sebbene questi ragazzi partissero musicalmente da Seattle, viravano verso altre sonorità, quasi a sancire che quella intensa ma breve fiammata rock era segnatamente sulla via del tramonto.
Fu un esordio in sordina e le vendite rimasero per qualche mese modeste. Fino a quando non fu lanciato il singolo No Rain accompagnato dal celebre video della bambina-ape che viene sbeffeggiata per la sua esibizione di danza e libera la sua vena artistica saltellando per la città e coinvolgendo chiunque incontri. La canzone non è di sicuro la più interessante dell’album, ma è particolarmente orecchiabile e lancia il gruppo verso un successo di dimensioni decisamente inaspettate. Il singolo raggiunge la posizione 20 nella Billboard Hot 100 e diventa un successo internazionale.
L’album si caratterizza di pezzi più importanti, come la personalissima Change, in cui Shannon esplora il tema della rivincita mettendo in primo piano il suo sentirsi diverso ed escluso dal mondo esterno. “Quando senti che la vita non vale la pena di essere vissuta, devi alzarti in piedi. Dai un’occhiata in giro, guarda in alto verso il cielo, diavolo sì. E quando i tuoi pensieri più profondi sono spezzati, continua a sognare ragazzo, perché quando smetti di sognare è ora di morire”.
Uni dei brani più profondi musicalmente e nelle liriche è senz’altro I Wonder. Apre in sordina con la straordinaria voce di Shannon che pronuncia “Ogni giorno il mio inferno vivente. Oh Dio, sai che c’ho provato. So quanto duramente ci provo. Tu lo sai che c’ho provato”. È quasi un grido di dolore di un ragazzo che cercava in ogni modo di tenere a freno i propri fantasmi e la propria maledetta dipendenza. “Poi mi hanno strappato i ricordi e non riesco a ricordare chi, chi ero prima. Ora, vedi che sto guardando tutto quello che faccio e stanno guardando tutto quello che dico. Perché non mi lasciano, mi lasciano, se ne vanno, non mi lasciano? Volevo solo avere sedici anni ed essere libero”. Sedici anni, l’epoca in cui l’armonia familiare, la sua infanzia e tutto ciò che c’era di bello nella sua mente si era improvvisamente interrotto e da cui forse non era più riuscito a ripartire. C’è un senso di paranoia nelle sue parole, in quel sentirsi alla mercé del giudizio altrui, qualcosa che a breve lo avrebbe precipitato negli abissi della sua complicata psiche.
Sleepyhouse ha delle atmosfere ancor più chiaramente psichedeliche e si apre con il suono del sarangi, uno strumento a corde tipico della musica indiana, quasi a colorire il brano di un sapore più spirituale, in una sorta di ricongiungimento con gli elementi essenziali della vita e dello scorrere naturale del tempo. Eppure quell’armonia si macchia come sempre dei tormenti di Shannon. “Ehi, non ti senti bene? Come stavo da bambino. E mi sento meglio quando sono sballato con una luce rossa che brilla su un po’ di unità”. E poi c’è Time, un brano che sembra partire con un omaggio alle sonorità country e finisce per mescolarsi all’energia del rock più puro con estrema originalità. “Cinque facce stufe con la voglia di uccidere un re” canta Shannon come a sancire il loro diritto ad affermare la propria ribelle autenticità.
L’album vendette oltre quattro milioni di copie. I Blind Melon continuarono a suonare ovunque condividendo il palco con artisti di grande levatura come, Lenny Kravitz e i Rolling Stones, fecero un breve tour con Neil Young (ldichiarato ispiratore di Shannon), i Soundgarden e i Pearl Jam. Chris Cornell aveva già stretto amicizia con Shannon e ne era quasi ossessionato. I Blind Melon avevano già fatto da supporter alla sua band durante il tour per la promozione di Badmotorfinger e Cornell si era affezionato a questo strano ragazzo che costruiva collane con qualsiasi cosa gli capitasse fra le mani. “Andavamo a pranzo con lui e Chris mi disse che Shannon gli ricordava talmente tanto Andy Wood da mandarlo fuori di testa” raccontò Christopher Thorn, il chitarrista dei Blind Melon. Shannon creò con una forchetta un ciondolo per una collana che Cornell indossò a lungo fino alla sua prematura morte. Era facile assimilare la sua anima a quella altrettanto eccentrica ed impulsiva di Andy Wood: condividevano di certo quel senso di autodistruzione che celavano abilmente dietro il loro magico sorriso.
Fra le tante esibizioni che si avvicendarono in quei pochi mesi, c’è la straordinaria session in un programma per la tv olandese nel 1993. Fra le varie canzoni suonano anche la cover di Candy Says di Lou Reed. Ne viene fuori una versione stravolta dai toni country che quasi oltraggia la drammaticità del brano. Eppure la voce di Shannon nel finale diviene quasi rabbiosa e ruvida, a sottolineare che quel tema gli era caro e che anche lui per motivazioni personali avrebbe voluto fuggire chissà quante volte da se stesso come la protagonista.
Il successo improvviso creò una sorta di corto circuito nel gruppo e soprattutto nella fragile psiche di Shannon. I suoi problemi di tossicodipendenza dilagarono velocemente e la più ovvia conseguenza fu un’incontrollata accentuazione della sua eccentricità. Fu arrestato per oltraggio al pudore a Vancouver per aver urinato addosso a un fan durante un concerto. Ebbe il coraggio di uscire sul palco completamente nudo con una pizza fra le mani da servire al pubblico. Un esempio più eclatante di quanto fosse fuori di testa è la sua esibizione a Woodstock ‘94, il controverso festival che festeggiava il venticinquesimo dello storico evento che aveva segnato un’epoca. Shannon era completamente sballato, si presentò al pubblico in tunica bianca e sneackers, con fermagli colorati sui capelli e truccato come una donna. Nemmeno la sua voce corripondeva a quell’onda calda ed avvolgente che lo aveva reso famoso, ma appariva ruvida e straziata. La perfomance è comunque di valore perché tremendamente travolgente e commovente. Shannon non faceva nulla per nascondere il baratro in cui stava precipitando e lo strazio della sua dipendenza era dipinto in ogni suo gesto e nella sua voce.
La band rientrò in studio per il secondo album e decise di ignorare la pressioni della Capitol Records per un album dalle sonorità simili a quelle del fortunato esordio. Questa volta si spostarono al Kingsway Studio di Daniel Lanois a New Orleans e diedero vita Soup. Il titolo non è per nulla casuale, perché quel disco è davvero un minestrone eccentrico e variegato di suoni nemmeno troppo amalgamato. La band era all’epoca maledettamente associata al loro più grande successo, No rain, ed in particolare al video di quella ragazzina che li aveva lanciati verso gli allori, ma che iniziava a perseguitarli artisticamente. Il nuovo album sembrò il tentativo cruento di tagliare i ponti con quell’immagine alla ricerca di una nuova individualità.
Purtroppo fu poco capito dai critici. Rolling Stone stroncò l’album proprio perché così diverso da quello di esordio e la stessa etichetta discografica non si spese troppo per promuoverlo. Veniva suonato poco nelle radio ed ebbe una risonanza davvero striminzita. A posteriori l’album appare come un passaggio obbligato di transizione per evolvere la propria arte. St. Andrew’s Fall è uno dei pochi momenti in cui sembra di riassaporare in parte l’amore per la melodia che li aveva resi famosi.
È evidente che i ragazzi fossero ancora lì e che avessero solo bisogno di libertà e fiducia per liberare il proprio estro.
Le critiche invece finirono invece per stroncare il debole animo di Hoon. Ci provò a disintossicarsi, ad avere un controllo su quella dipendenza che lo divorava. Era diventato padre di una bambina, Nico Blue, e aveva tutti i motivi per non arrendersi. Ma basta guardare l’esibizione dei Blind Melon al Metro di Chicago del settembre del 1995 per capire quanto ormai fosse fuori controllo. Davanti ai nostri occhi c’è una persona completamente diversa da quel ragazzo con lo sguardo dolce e disincantato che cantava la propria rivalsa sulla vita. C’è un uomo disperato, con il mascara che si scioglie sotto gli occhi a creare una maschera di rabbia e disperazione. La sua voce è lacerata, ma ancora profondamente toccante e coinvolgente.
Il 21 ottobre del 1995, dopo un’esibizione in stato confusionale al Numbers Club di Houston, Shannon Hoon viene trovato senza vita nel bus che li portava in tour. L’ingegnere del suono Lyle Eaves andò a svegliarlo per il sound check, ma lo trovò privo di sensi. Quando fu chiamata l’ambulanza, i medici ne dichiararono la morte. Shannon aveva compiuto da un mese ventotto anni, superando quell’età così tragica nel mondo del rock, senza però riuscire a sfuggire al suo tremendo destino. L’autopsia dichiarò che il decesso era correlato ad un’ overdose di cocaina.
L’anno successivo la band pubblicò Nico, un album di outtake e demo che prendeva il nome della sfortunata figlia di Shannon. “Non voleva morire. Era un ragazzo decisamente eccessivo in tutto. Era eccessivo nell’amore per le persone ed eccessivo nelle sue tendenze violente ed eccessivo nelle cose buone che faceva ed eccessivo in tutti i settori della sua vita. Nei cinque anni in cui siamo stati migliori amici, non è mai passato un giorno in cui non facesse qualcosa che pensavo fosse completamente straordinario” dichiarò Roger Stevens. Non era un ragazzo facile, era eccentrico ed imprevedibile. Poteva riempire una stanza con la sua presenza, ma anche portare all’esaurimento chi cercava di proteggerlo dal suo istinto di autodistruzione. Stroncato dai suoi stessi eccessi, Shannon ha incendiato la sua esistenza lasciandoci le ceneri del suo talento e l’amarezza dell’ennesima vita bruciata troppo in fretta.
ascolti
- Blind Melon – Blind Melon (1992)
- Blind Melon – Soup (1995)
parole
- Greg Prato – A Devil on One Shoulder and an Angel on the Other: the story of Shannon Hoon (2008)
visioni
- All I can Say – regia di Danny Clinch (2019)