“In my life” e il viaggio mentale dei Beatles alla ricerca dei posti della memoria

Quanto conta la fiducia nell’amicizia? C’è spazio per competizione e rivalità o sono caratteristiche che rischiano di stritolare un rapporto? Se guardiamo indietro alla coppia più famosa della storia del rock, a quel connubio LennonMcCartney che da più di sessant’anni incanta il mondo, potremmo provare a cercare qualche risposta. Avevano iniziato dal nulla ed in pochissimi anni si erano ritrovati a dominare il pianeta. Ma quello che li univa e che al tempo stesso li divideva era fatto della materia complessa di cui sono cementate le vere amicizie.

Nel 1965 erano in vetta alle classifiche di tutto il mondo con Help. Decisero di prendersi sei settimane di pausa per riprendere il fiato e godersi le rispettive famiglie. Da lì a poco Ringo Starr sarebbe diventato padre del suo primogenito Zack. La Emi però li obbligò a rientrare in studio a metà ottobre per un album da mettere in vendita a ridosso delle feste di Natale. La coppia Lennon-McCartney aveva il dovere di sfoderare quanto prima una nuova decina di canzoni. A posteriori sembrerebbe un gioco da ragazzi trattandosi dei Beatles, ma non lo fu per nulla. Il 1965 segnava peraltro il momento di inizio del lento declino dei loro rapporti e delle prime incomprensioni.

L’intenzione comune era comunque quella di fare un album diverso da quelli precedenti.
Rubber soul è per certi versi l’assaggio di quella rivoluzione copernicana nel rock che segnò il successivo album, Revolver. All’interno di questo delizioso quanto geniale lavoro c’è uno dei capolavori assoluti dei Beatles, In my life. Dire che questa canzone abbia caratteristiche epiche non è poi un’esagerazione, considerata l’ambiziosa intenzione di produrre un brano che avesse io profumo del senso della vita. È una di quelle canzoni su cui negli anni Paul e John si sono animatamente punzecchiati per accreditarsene il merito compositivo. Lennon per primo raccontò di avere avuto l’idea di scrivere una canzone come quella dopo la presentazione del suo libro ‘In His Own Right’.
Un giornalista gli si avvicinò e gli chiese come mai non applicasse quella modalità di scrittura creativa per le sue canzoni. “In My Life credo sia stata la mia prima canzone davvero importante e la prima che ho scritto nella quale ho consapevolmente parlato della mia vita. Per la prima volta mi impegnai scientemente ad applicare le mie capacità letterarie a un testo di canzone” ammise qualche anno dopo.

John raccontava di essersi dedicato prima al testo, provando ad immaginare una corsa in autobus dalla sua casa d’infanzia fino al centro di Liverpool. Provò in un primo tentativo ad elencare tutti i posti per lui più significativi, ma quand’ebbe concluso si sentì piuttosto insoddisfatto. Solo quanto lasciò perdere ogni iniziativa e mollò le difese mentali, come nei migliori dei processi creativi, gli salì spontaneamente alla mente l’incipit della canzone. Quell’elenco non andò comunque perduto e alla sua morte fu ritrovato da Elliot Mintz a cui Yoko Ono aveva dato il compito di fare un inventario di ciò che John possedeva. È una lista poetica dei luoghi che avevano un posto speciale nel suo cuore come Penny Lane, l’Abbey Pub di Childwall che era un deposito di tram in disuso o il Dockers Umbrella che era il nome popolare della prima ferrovia elettrica di Liverpool. Quei posti avrebbero ispirato più avanti anche la celebre Penny Lane

Appare evidente anche a distanza di anni che sia il testo il vero punto di forza della canzone, sebbene la melodia resti comunque capace di restituire la medesima dolce malinconia di cui trasudano le parole. “Ci sono luoghi che ricorderò per tutta la vita anche se qualcuno è cambiato. Qualcuno per sempre, non per il meglio. Qualcuno se n’è andato, qualcuno è restato. Tutti questi luoghi hanno i propri momenti. Che ancora posso ricordare con le ragazze che ho amato e gli amici. Alcuni sono morti, alcuni sono vivi. Nella mia vita li ho amati tutti”. McCartney sosteneva di essersi ispirato ai Miracles per la melodia e la struttura appare alquanto minimale come nel loro stile fino ad allora: un’alternanza fra strofa e ritornello esteso. Quelle parole però recitate in musica dall’insuperabile voce di Lennon rappresentano una meditazione profonda sullo scorrere della nostra esistenza.

Chiunque di noi abbia ascoltato questi versi ha visto la propria vita passargli davanti ai propri occhi, ripercorrendo attraverso una magia universale proprio quel viaggio mentale che aveva provato a fare Lennon per primo. In una dimensione senza tempo, il fluire della vita sembra assumere una malinconica perentorietà a cui è difficile sfuggire. John Lennon aveva solo venticinque anni quando si apprestava a riflettere su questioni tanto profonde come la vita e la morte. Nella seconda parte la canzone è più dichiaratamente romantica e crea un equilibrio fra ciò che è andato e l’amore che invece non finirà mai. 

Abbastanza comprensibile che Lennon e McCartney negli anni a venire si siano contesi questo piccolo gioiello. Paul ebbe a dire che in realtà da molto tempo prima discutavano della possibilità di scrivere una canzone suoi posti della loro infanzia. John sostenne invece per anni di aver lavorato quasi in totale solitudine al testo della canzone, che propose per intero a Paul. Quest’ultimo però aveva una versione piuttosto diversa dei fatti, “Arrivai a casa di John, a Kenwood, per una seduta di composizione e lui aveva scritto la strofa di apertura, molto bella” disse anni dopo. Paul sosteneva che quando si misero a lavorare insieme alla canzone rimase ben poco dei versi di John. E sosteneva soprattutto che la musica fosse totalmente opera sua.

Raccontò di essere sceso al pianerottolo dove John conservava un Mellotron (strumento a tastiera piuttosto in voga in quegli anni) e di aver lavorato alla melodia. “Gli ho detto di andare a bere una tazza di tè o qualcosa di simile e di lasciarmi da solo per dieci minuti. Poi ricordo che sono tornato su da lui e gli ho detto: ‘Bene, ce l’ho! E mi pare anche buona. Che ne pensi?’. E lui: ‘Carina’. Dopo di che abbiamo continuato a lavorarci insieme, usando quella melodia per scriverci sopra le altre strofe”.

Il buon Paul nel 2001 rincarò la dose dichiarando “Penso di averla scritta io, la melodia, ma John pensava di averla scritta lui. Sapete che vi dico? Può tenersela. Una su duecento…”.
John per anni sostenne che fosse una sua canzone, attribuendo all’amico solo il middle eight, la sessione centrale di otto battute al pianoforte in controtendenza con la melodia principale. La storia vuole però che quell’inframezzo fosse opera di George Martin. Secondo Martin c’era uno spazio vuoto all’interno della canzone che richiedeva un assolo. Si mise a lavorare ad un assolo al pianoforte in stile barocco, qualcosa che ricordasse Bach. Usò l’organo Hammond, ma non convinto passò al piano elettrico. “Quello che avevo in mente era troppo complicato perché io potessi suonarlo dal vivo, così lo suonai a mezza velocità e poi lo accelerai e a John piacque”.

La canzone non ebbe una grande promozione come altri brani di quell’album. Nemmeno Paul McCartney l’ha mai suonata dal vivo. Nel 1974 invece George Harrison ne fece una cover durante il suo tour nordamericano. E per l’occasione cambiò il verso finale “in my life I love you more” in “in my life I love God more”. Ma il rapporto di Harrison con la spiritualità è tutta un’altra storia.
Nel 1992 Bette Midler fece una cover del brano che fu inserita nella colonna sonora del film ‘Giorni di gloria… giorni d’amore’ di cui era protagonista e per il quale fu candidata all’oscar.
Una delle più belle cover resta però quella di Ed Sheeran ai Grammy del 2014. Ne fa una versione semplice, ma incredibilmente sentita. In tribuna c’erano Paul Mc Cartney, Ringo Starr e Yoko Ono, che rimasero piacevolmente colpiti dalla performance onesta e minimale del giovane cantautore.

È un gioco che tutti noi abbiamo fatto almeno una volta nella vita quello di provare ad attribuire a John o Paul un riff o un quartetto di versi. In my Life resta un capolavoro in cui tutti ebbero modo di contribuire e che forse proprio per la sua bellezza cercarono di attribuirsene i meriti. Ma la magia dei Beatles era proprio nella loro coralità, in cui erano peraltro compresi i preziosi contributi di George Martin. Una coralità fatta di rapporti umani in cui la fiducia era il motore trainante, la stessa che si sgretolò portando alla fine la loro incredibile e gloriosa esperienza.

ascolti

  • The Beatles – Rubber Soul (1965)

parole

  • The Beatles, la vera storia – Bob Spitz (Ed. Sperling & Kupfer, 2005)
  • Il libro (più) bianco dei Beatles. Le storie dietro le canzoni – Franco Zanetti (Ed. Giunti, 2019)
  • The Beatles, l’opera completa – Ian McDonald (Ed. Mondadori, 2021)

visioni

  • Giorni di gloria… giorni d’amore (For the Boys) – regia di Mark Rydell, 1991

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