Edu Lobo perde la voce, dopo mezz’ora di concerto al Teatro Celebrazioni di Bologna, unica e prima data italiana della sua lunga carriera, nell’ambito di Bologna Jazz Festival. L’autore della mitica “Arrastão” firmata con Vinicius De Moraes per Elis Regina nel 1965 cerca coraggiosamente di continuare, ma una brutta infezione alla gola, dichiarata prima di cominciare, lo costringe a dichiarare forfait, tra gli applausi scroscianti. Impossibile cantare in queste condizioni e in questo periodo particolare, ogni precauzione è più che giustificata. C’è solo da sperare che non si tratti di altro.
Mostro sacro della musica popular brasileira, cantautore che ha lavorato con Antonio Carlos Jobim, Maria Bethania, Gal Costa, Milton Nascimiento, Caetano Veloso, Gilberto Gil, ma anche con Sarah Vaughan, Toots Thielemans, Earth, Wind & Fire, Lobo si è presentato sul palco nel primo pezzo già con la voce affaticata, ma si pensava a qualche problema dovuto all’avanzare dell’età. Nato il 29 agosto 1943 , non è più un ragazzino. Invece, ha subito messo le carte in tavola: “Le canzoni non saranno forse come ve le aspettavate, ma cercheremo di fare il nostro meglio”. Con lui un quartetto composto da Mauro Senise, flautista e sassofonista, per anni con Egberto Gismonti, il pianista e direttore musicale Cristóvão Bastos, il batterista Jurim Moreira e il contrabbassista Jorge Helder.
Eppure, anche con le corde vocali provate, la magia della musica rimane intatta. Edu Lobo scivola tra ritmo e melodia, riesce ad incantare ed affascinare con quel velluto che ogni tanto si increspa, rivela pieghe inattese. In un brano dolcissimo, la frustrazione di non poter cantare come vuole aggiunge drammaticità al pezzo. Lobo si abbevera frequentemente ad un bicchiere, con l’incitazione – anche un po’ incosciente – di alcuni brasiliani nelle prime file che cerca di esaudire. Canta e porta la croce, insomma, ma la magia di quei ritmi variegati, di quelle armonie che sembrano semplici e invece sono complesse, rimane lì, sospesa nell’aria.
Malgrado caramelle offerte dal pubblico, applausi scroscianti e incitazioni, è evidente che non ce la fa proprio. E ad un certo punto, nel mezzo di Pradizer Adeus (dirsi addio), getta la spugna, anche se è riuscito a cantare almeno sei brani. “I can’t sing”, ammette, sconsolato, in inglese. E viene giù il teatro dagli applausi perché la gente vorrebbe ascoltare quello per cui ha pagato, ma comincia a capire anche il dramma dell’artista. Show must go on, certo. Ma non a tutti i costi. Ci sono anche una salute e una voce non più giovane da proteggere.
Escono tutti, il pubblico acclama, ingordo. Vorrebbe un altro pezzo, ma a questo punto non si può fare altro che uno strumentale, lo capirebbero anche i sassi. E infatti ci sono mormorii in sala, tra coscienti e incoscienti. I musicisti potrebbero andare avanti da soli, ma paiono quasi riluttanti a riprendere come se – a differenza di molti – gli applausi non li caricassero. Sono venuti per accompagnare il maestro, non hanno ego da accontentare.
Comunque fanno il loro, ricamando jazz e bossa nova, trame sottili e sferzate di energia, ancora per un quarto d’ora. Poi, alle 22.49, viene dichiarato il forfait, con le scuse di Marco, accompagnatore fedele del maestro, in buon italiano, insieme al direttore artistico Francesco Bettini: “Grazie a tutti, ma non ce la facciamo proprio a continuare” e altri applausi di risposta. Edu Lobo non torna più nemmeno da dietro le quinte, deve essere proprio distrutto.
Si esce con un po’ di insoddisfazione per non aver ascoltato tutto quello che si aspettava, ma anche con la sensazione di aver assistito ad un atto di coraggio musicale da parte di uno degli ultimi grandi esponenti della musica made in Brazil. Alla prossima, forse.