Mingus Big Band a Bologna, in un Teatro Duse strapieno. Un’occasione più unica che rara, quella offerta da Bologna Jazz Festival, di sentire e vedere all’opera la formazione di New York City che ha raccolto ufficialmente l’eredità musicale di Charles Mingus, sotto la gestione della vedova Sue, da New York City nel nome di uno dei grandissimi del jazz.
Giovani e anziani, bianchi e neri, nel nome di una musica interrazziale e intergenerazionale, come voleva Charlie che fu in prima linea non solo nella musica, ma anche nella lotta per i diritti umani.
La Mingus Big Band porta il suo nome e le sue composizioni in giro per il mondo, diretta dal contrabbassista Boris Koslov, di origine moscovita. E’ un’ensemble che sprigiona magia e intesa, potenza di fuoco degli undici fiati e delicatezza, voglia di suonare e di divertirsi, in cui ogni elemento della squadra è anche un solista che, a turno, si alza dal suo posto e come Harry in Sultans of Swing,dei Dire Straits “make the scene”, si prende la scena. Un collettivo affiatato che echeggia il sound delle grandi band degli anni Quaranta, respiro armonico e swing nel segno del maestro Duke Ellington, aggiungendovi la contemporaneità e il gusto be bop, a tratti free, di Mingus.
E’ Koslov con un misurato solo ad introdurre la danza e poi la musica si snoda libera e leggera, mentre i solisti si alternano uno dopo l’altro. Robin Eubanks (trombone) e Philip Harper (tromba) vengono dai Jazz Messengers di Art Blakey, altra grande scuola, e portano idee e maestria. Invisible Ray parte con accenti quasi caraibici poi si stempera in uno slow di trombone di Conrad Herwig. La sensazione latina è accentuata dal brano successivo, con le scansioni ritmiche di Tijuana (città messicana di confine che Mingus amava molto) tra la batteria sapiente di Donald Edwards e Koslov che percuote la cassa del contrabbasso, poi i soli di tromba e sax tenore accelerano la melodia per poi distenderla.
Sarà così per tutto il concerto, musica di marca essenzialmente americana, ma trasversale ed universale, che richiama alla mente vecchi film in bianco e nero, locali fumosi, ma anche il respiro urbano della metropoli, la sua folla eterogenea e composita, in un messaggio di fratellanza e di pace, temi cari al burbero Mingus al quale nel 1979 fu intitolato un bellissimo album di Joni Mitchell, al quale lavorò, ma non potè terminare, piegato dal morbo di Gehrig.
Avrebbe compiuto un secolo in questo 2022, Charles Mingus (o Mongus, come è scritto nella via Orefici del jazz a Bologna), morto a 56 anni senza aver mai potuto formare una sua big band (sogno esaudito dalla moglie Sue) e la ricorrenza viene degnamente celebrata sul palco dai suoi epigoni e nell’album Centennial Sessions che – avverte Boris Koslov, maestro di cerimonie e degno continuatore del mito: “Si può trovare dappertutto ma non qui in sala, purtroppo”.
Mingus è un genio che ha permeato di se tutto il jazz dagli anni Cinquanta all’inizio degli Ottanta, assorbendo la lezione di Stravinski, Debussy e Nino Rota, il compositore felliniano che adorava, ma sviluppando un suo stile preciso. A chi gli chiedeva se suonava jazz, rispondeva con un ringhio: “I play Mingus, io suono Mingus”.
Meditation for a Pair of Wire Cutters (interpretata anche da Chrissie Hynde in Valve Bone Voe del 2019) parte con l’archetto di Koslov e poi il flauto traverso di Alex Terrier, per toccare latitudini sonore diverse, si sviluppa ariosa nello spazio e nel tempo, raccontando storie di integrazione. E’ musica con una connotazione melodica precisa, quella di Charles Mingus, che i suoi adepti eseguono con rispetto e passione, come sacerdoti di un culto che non deve perdersi dopo la scomparsa del fondatore.
E’ bello e importante che la musica passi di mano in mano, di generazione in generazione, in un laboratorio come la Mingus Big Band che diventa accademia e lancia nuovi talenti, come quello del pianista Theo Hill, del sassofonista e flautista Alex Terrier e della sassofonista Sarah Hanahan che con il suo solo vibrante di alto si prende un uragano di applausi, così come il decano Earl McIntyre che si alterna a trombone basso e basso tuba. Sarebbe stato bello ascoltare anche la baritonista Lauren Sevian che però dopo i primi due brani ha lasciato il suo strumento ed è sparita dietro le quinte per non tornare. Forse un malore, speriamo niente di grave.
Al termine, la band saluta con Herwig che presenta ad uno ad uno i membri del gruppo, compagnia ben assortita in grado di formare spesso un’anima sola, anche se si nutre dell’energia, della fantasia e del dinamismo dei singoli. Il bis viene richiesto a gran voce ed esaudito prontamente, si esce nella notte bolognese con le orecchie soddisfatte e la sensazione di aver imparato qualcosa dalla Mingus Big Band.