Steve Hackett arriva sul palco del Teatro Celebrazioni di Bologna pieno come un uovo, alle 21, puntuale come un orologio svizzero, con la sua Genesis Revisited Band. Circonfuso di luce azzurra, attacca Ace of Wands (pescherà parecchio da Voyage of The Acolyte, 1975) con la sua fida Gibson Les Paul dorata ed è subito un assaggio di come sarà il concerto: fughe chitarristiche bachiane, dolci arpeggi, escursioni in quota e muri di suono intelligenti. Annuncia, in buon italiano: “La musica è un sogno e noi faremo parecchi sogni musicali, stasera”. In programma c’è Foxtrot in integrale, nel cinquantenario dell’album che lanciò i Genesis nell’Olimpo, ma il menu propone anche altro.
Devil’s Cathedral, dall’ultimo Surrender of the Silence (2021) introdotta dal sax soprano di Rob Townsend e dal solenne organo a canne di Roger King mette in mostra il primo cantato di Nad Sylvan, poi ci sono le liquide carezze di Spectral Mornings con gli interventi di flauto di Townsend, polistrumentista e anima del suono. La pimpante Every Day assume toni pop che via via si stemperano in sonorità quasi jazz. In A Tower Struck Down c’ è un bel solo di basso di Jonas Reingold. Poi con Camino Royale (1982) si toccano anche il metal, grazie al pompaggio del sax baritono (sempre Townsend) e il soul funk. Shadow of The Hierophant (scritta con Mike Rutherford) sono dodici minuti di folk, psichedelia e schitarrate maestose.
Come i suoi antenati medievali, Hackett è un abile costruttore di cattedrali sonore, non solo un virtuoso dello strumento che conosce a menadito (è il caso di dirlo) Bach, Segovia e Villa Lobos, ma un paziente edificatore di architetture inconfondibili, con l’uso del bending e del tapping crea paesaggi e immagini. La band che si porta dietro da anni è affiatata ed efficace, con la sezione ritmica composta da un bassista (e anche chitarrista) creativo come Reingold e Craig Blundell, batterista potente ed eclettico che richiama il miglior Phil Collins.
Già, perché è evidente come il paragone con i Genesis sia inevitabile. E quello che si aspetta la gente in sala è l’esecuzione integrale dell’album del 1972. Sono venuti in tanti, anziani e giovani che probabilmente hanno conosciuto il prog con i Dream Teather o su You Tube o (meglio ancora) scavando nella discoteca di padri, madri, zii e nonni. A differenza di altri, Hackett non evita il confronto, dopotutto è uno dei cinque che hanno costruito capolavori come Foxtrot, prima che le strade si dividessero.
Hackett appare riconciliato e suo agio con un passato glorioso che per molti può diventare ingombrante. Per lui non lo è affatto, sorride spesso e guida la sua band con cenni del capo. Non è più l’oscuro tessitore di trame che nei primi Genesis suonava seduto e un po’ nascosto, perché Peter Gabriel catalizzava tutta l’attenzione. Suona al centro del palco, ricama emozioni antiche con arrangiamenti moderni, partendo da Watcher of The Skies con Sylvan che si innalza sopra gli altri nel ruolo dell’osservatore di pianeti con occhi luminosi e binocolo.
Non guasta un pizzico di teatralità, nel ricreare quelle atmosfere. Get’em Out By Friday scorre via con la sua critica sociale e gli assoli misurati del leader, Can-utility and the Coastliners con i giochi di parole cari a Gabriel è una piccola“musical box” che si apre rivelando parecchie sorprese. La brevissima Horizons mostra tutta la maestria di Hackett alla chitarra acustica che suona con una levità incredibile. Ma tutte scompaiono di fronte all’ epica scintillante di Supper’s Ready, una mini-opera rock costruita come suite divisa in più movimenti, che racconta le avventure visionarie di due amanti in un mondo parallelo ricco di poesia, suggestioni, scene di battaglia e allucinazioni religiose verso la New Jerusalem che alla fine si conclude ironicamente, con un invito: la cena è pronta.
Supper’s Ready, più che un brano musicale è un’esperienza sonora totalizzante. Qui l’apporto di Hackett alla costruzione armonica è determinante, Townsend si prende con noncuranza le parti di flauto di Gabriel, il suono diventa epopea, sale in vetta e poi si distende, si placa e rughe ancora. E il canto di Sylvan è drammatico e pieno di pathos.
Al termine c’è un applauso interminabile. Tutti in piedi per una standing ovation meritatissima a cinque padroni del suono, un collettivo in cui ognuno trova il suo spazio e di cui Hackett è leader generoso.
Il bis è già previsto, come da copione, ma comunque entusiasmante. Partono le prime note inequivocabili di piano di Firth of Fifth, accolte da un boato che fa tremare il teatro per un pezzo del 1973 che rivela tutta la sua modernità, fusione di atmosfere classiche e rock magistrale, con un paio di soli immaginifici che fanno scendere la lacrima e il sax soprano che prende il posto del flauto nell’originale. Tu chiamale, se vuoi, emozioni.
Un creativo solo di batteria di Blundell mentre gli altri abbandonano il palco prelude a Los Endos, intervallata da Slogans. E’il brano che chiudeva A Trick of The Tail (1976), primo disco senza Gabriel e ai tempi sembrava impossibile. Un omega che riepiloga con lavica attitudine jazz-fusion tutto l’album, un bignami spettacolare che è propedeutico all’ascolto di un altro capolavoro degli anni Settanta, pronto per la riproposizione, forse tra quattro anni. E conduce all’apoteosi al Celebrazioni.
Di nuovo tutti in piedi, a luci accese, a tributare il giusto riconoscimento alla band che ringrazia e saluta. Novantadue minuti di applausi, come per la corazzata Potemkin. Non ci sarà un altro bis, hanno suonato quasi tre ore. La corazzata Hackett con la sua ciurma naviga rapida e sicura nelle acque di un rock che più eclettico non si può, definendo un canone di musica classica per l’oggi e per il domani.