I Cure in Italia: entusiasmo, voglia di suonare, brividi, connessione, un’esperienza quasi mistica

I Cure sono tornati in tour dopo quattro anni. Probabilmente lo avrebbero fatto anche prima, se non ci fosse stata la pandemia a stravolgere le nostre vite. Perché a giudicare dall’entusiasmo che Robert Smith ha espresso sul palco nelle quattro serate italiane, appare abbastanza scontato che, nonostante il passare degli anni, abbia ancora tanta voglia di regalare la sua musica senza risparmiarsi ad un pubblico che gli restituisce ogni volta un affetto sconfinato.

La band di Robert Smith nasce alla fine degli anni Settanta, nel pieno dell’esplosione della corrente new-wave e raggiunge l’apice del proprio successo tra la metà e la fine degli anni ottanta. Alla fase più gotica, la cui punta di diamante può essere considerato l’album Pornography, in cui il nichilismo musicale e dei testi raggiunge l’apice della loro espressione, succedono album più colorati e forse anche più commerciali, come The head on the door.

L’album capolavoro che rivela il punto più alto della loro produzione musicale resta a tutt’oggi Disintegration, in cui la malinconia più cupa riesce ad integrarsi a melodie più armoniose in un equilibrio capace di avvincere anche l’ascoltatore più diffidente. I concerti sono esperienze personali e di massa al tempo stesso. I concerti dei Cure finiscono per essere ogni volta esperienze quasi mistiche.

La connessione fra la band e il pubblico non passa attraverso le parole. Robert Smith non è un chiacchierone sul palco, non incita cori per comunicare col pubblico. La connessione fra i Cure e la gente è fatta di musica, di quelle canzoni che per chi li ama hanno il sapore dell’eterno e risvegliano sempre e comunque sensazioni da far accapponare la pelle.

Ogni sera le canzoni si susseguono in mix che ripropone l’alternanza fra le oscure atmosfere di Seventeen seconds e Pornography e le melodie più conosciute e danzanti di storici pezzi come Primary, Close to me e In between Days, per passare a canzoni nostalgiche e malinconiche come Last day of Summer o Want.

In questo tour, la band ha presentato alcune nuove canzoni, avendo annunciato nei mesi scorsi la pubblicazione di un nuovo album. I brani inediti probabilmente non brillano per originalità, ma riecheggiano le sonorità di due fra i più importanti lavori del gruppo, ovvero Disintegration e Bloodflowers. Sono melodie dolci e malinconiche ad accompagnare testi che ricalcano temi della solitudine e dell’addio, sempre cari a Robert Smith.

Uno dei brani, I Can Never Say Goodbye, dedicato al fratello scomparso, è una canzone nostalgica e dolcemente straziante che trasuda come tutte le canzoni dei Cure di emozioni vere e forti. Robert Smith ha riempito questi anni di vuoto, dall’ultimo album 4:13 Dream del 2008, con annunci ripetutamente disattesi di un nuovo lavoro, tant’è che i social sono spesso invasi dai commenti più o meno scherzosi dei fans su questo album che alla fine, seppur annunciato, non vede mai la luce.

Eppure, nonostante un’assenza creativa di quasi quindici anni, i Cure sono riusciti a mantenere vivo il rapporto di devota fiducia con i propri sostenitori. Dal punto di vista meramente tecnico, sorprende come a distanza di quarant’anni riescano ad avere tuttora un controllo del suono impressionante nei loro live, nonché la presenza scenica di un Robert Smith che conserva la bellezza e l’unicità della sua voce. Potresti vederli suonare dal vivo A Forest quasi all’infinito e non averne mai abbastanza.

È molto diffusa l’abitudine fra i fans più accaniti di seguire il tour in maniera itinerante, accumulando quanti più concerti possibile. Qualcosa di poco comprensibile per alcuni, ma per i sostenitori più affezionati è quasi un crocevia necessario per godere della magia di quei live e rinforzare l’amore per uno stile che ormai possiamo definire con cognizione di causa un cult del rock alternativo.

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