Federico Mecozzi: la voce del violino tra elettronica e world music a Bologna

Federico Mecozzi non è uno dei soliti virtuosi del violino che mescola generi come in un cocktail, spesso indigesto. E’un giovane compositore capace di suscitare emozioni utilizzando linguaggi moderni (l’elettronica, i loop) uniti all’eterno potere della melodia.

Il musicista riminese classe 1992, dal 2009 al fianco di Ludovico Einaudi (ma anche di Branduardi, Pacifico, Blonde Redhead, Ministri), ha presentato al Teatro Duse di Bologna il suo ultimo lavoro Inwards (Warner Music) davanti ad una folla prodiga di applausi, inizialmente in un raccolto silenzio che ha consentito di apprezzare al meglio la qualità del concerto.

Mecozzi, che si alterna a violino, pianoforte e ad un piccolo synth, era accompagnato da una piccola orchestra di grande ricchezza strumentale che unisce il fascino degli archi (il violoncello di Veronica Conti, anche al glockenspiel e il violoncello e contrabbasso di Anselmo Pelliccioni) a strumenti tipici del rock come la chitarra elettrica (Massimo Marches, pure chitarra acustica, mandolino bouzouki e il Bass VI usato da Peter Green, dai Cure e dai Placebo) e la batteria di Tommy Graziani, con un tastierista poliedrico ed inventivo (piano, synth, fisarmonica, harmonium, marimba) come Stefano Zambardino.

Sei elementi per produrre un suono eterogeneo ed affascinante, esteso a diverse latitudini, world music come si suol dire, evocativo di deserti assolati, rupi celtiche, nenie arabe, distese sonore di acqua e di sabbia nel tracciare un paesaggio di immagini suggerito dalla sensibilità di Mecozzi & c.

Inwards è infatti “un viaggio verso l’interno di sé, verso sensazioni più intime ed oscure rispetto alla quotidianità esteriore” come ha spiegato lo stesso Federico, dopo la prima parte di concerto. Composizioni nate durante la pandemia, “quando siamo stati costretti a chiuderci in noi, ma anche ad aprirci entro” che ora sul palco possono liberare tutta la loro energia e potenza.

La musica si snoda libera e leggera, alternando delicatezze armoniche a sferzate di elettricità sfruttando spesso l’iterazione quasi ipnotica di moduli alla Terry Riley. Mecozzi dà voce al violino, strumento di infinite possibilità, lo pizzica, lo suona come un ukulele, lo elettrifica con misurati effetti, in dialogo serrato con gli altri strumenti, mentre Massimo Marches ricama merletti alle sue chitarre, richiamando sonorità deserter. La musica sale, potente, in crescendo, e poi si distende, melodica. Quando Mecozzi si siede al pianoforte vocalizza, potrebbe essere un canto gregoriano o un brano di folklore andino, poco importa.

Importa che in questo concerto sia protagonista assoluta la musica, declinata in varie forme, non al servizio di inutili assoli e tecnicismi, ma in una “fabbrica” collettiva di sensazioni. Inevitabile l’omaggio al maestro Ennio Morricone con le note che in C’era una volta il West appartenevano all’armonica, affidate qui al suo violino in duetto con l’harmonium di Zambardino. Il risultato è affascinante.

La ricchezza della strumentazione consente una varietà di suoni, con sorprese ad ogni angolo. Mecozzi suona e dirige un ensemble affiatato, spesso incorniciato da un intelligente gioco di luci, in un set che è creazione continua, invenzione fantasiosa intorno ad un tema riconoscibile, che conduce lo spettatore attraverso le sue emozioni.

Applausi e ovazioni da concerto rock per Mecozzi e i cinque musicisti che, di buon grado, concedono il richiestissimo bis. Mentre sgusciamo fuori dal teatro per evitare la calca, pensiamo che forse è nata una stella della nuova musica contemporanea.

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