Enrico Rava: “Io e Sly Stone nel 1969, che avventura! Michael Jackson, un grandissimo”

Enrico Rava è un maestro del jazz italiano, conosciuto in tutto il mondo. Ha diradato recentemente le sue apparizioni in pubblico (“A ottantatré anni, mi prendo qualche cautela, specialmente dopo la pandemia”) per cui assistere ad un suo concerto, oggi, è indubbiamente un privilegio ed un onore.

Rava ha lavorato con tutti i più grandi jazzisti, da Carla Bley (sul mitico Escalator Over the Hill del 1971) a Michael Petrucciani, da Gato Barbieri a Steve Lacy, da Lee Konitz a Pat Metheny. E’un artista completo, che non disdegna contatti con la musica leggera (ha suonato su dischi di Ivano Fossati, Gino Paoli e Ornella Vanoni) e ascolti rock. Con lui abbiamo parlato di jazz, ma anche di Queen, Michael Jackson, Beatles, Sly Stone e altre storie.

Sta suonando in duo con l’altro Enrico del jazz, Intra, in questo periodo

Ed è la prima volta, noi due soli, anche se in passato avevamo suonato su progetti di altri musicistici. Io e lui parliamo lo stesso linguaggio, non facciamo certo fatica ad intenderci. Ogni concerto è un’ ora e mezza di continue sorprese, anche per noi, che viviamo l’improvvisazione di quel momento, riuscendo spesso a creare magia.

Lei ha fatto crescere e conoscere giovani come Stefano Bollani e Paolo Fresu…

“Beh, Paolo quando suonava con me era già abbastanza famoso. Stefano invece posso dire di avere contribuito a lanciarlo, cosa che mi rende sempre molto orgoglioso perché è un musicista davvero straordinario.

Come vede il panorama attuale del jazz in Italia?

Bene, direi. Ci sono in giro tantissimi musicisti e anche di buon livello, che riescono a vivere della loro musica, nonostante le note difficoltà. Quando ho iniziato io, non eravamo in molti a poterlo fare. C’erano Gianni Basso e Oscar Valdambrini, Sergio Fanni, lo stesso Enrico Intra. E Nunzio Rotondo, grande trombettista romano che sentivo sempre alla radio e mi ha influenzato non poco. Oggi c’è una quantità incredibile di jazzisti, nemmeno lontanamente ipotizzabile ai miei tempi, e questo è un bene indubbiamente per il settore.

Il problema è che la pandemia ha indotto tutta una serie di cambiamenti. Io stesso ho ridotto l’attività, pero posso anche permettermelo. Mi sono imposto di non usare mezzi pubblici, ho rinunciato a partecipare a festival a New York, dove mi stanno celebrando e li ringrazio, Tel Aviv, Catania. Ho detto al mio agente che non voglio fare più di tre, quattro concerti al mese.

Ma per un giovane oggi la situazione è preoccupante, durissima. Mi chiedo cosa sarà anche con questa riduzione dei consumi elettrici che ci viene prospettata. Come faranno i teatri, per esempio?

Un bel punto interrogativo, speriamo in bene. C’è qualcosa o qualcuno di interessante che vede in giro ?

Soprattutto ragazze straordinarie, in un ambiente un po’ machista che finalmente si è aperto. Anais Drago per esempio, con cui ho suonato a L’Aquila e suonerò ad Orvieto per Umbria Jazz Winter, violinista e compositrice bravissima. Francesca Remigi, batterista col suo progetto internazionale Archipelagos. Evita Polidoro che ha suonato la batteria per Dee Dee Bridgewater. La pianista Stefania Tallini che fa musica brasiliana con Jaques Morelembaum. La sassofonista milanese Sophia Tomelleri. Tra i maschi, il trombettista friulano Mirco Cisilino, friulano ventitreenne che suona anche trombone e corno francese. L’ho sentito con Franco D’Andrea e sono rimasto basito, tanto da cooptarlo subito per Orvieto. E poi Matteo Paggi, marchigiano che abita ad Amsterdam, trombonista eccezionale che ha anche un insolito trio con clarinetto e chitarra, come quello di Jimmy Giuffre.

Lei esplora molto la musica cosiddetta leggera, ha fatto anche un progetto su Michael Jackson…

Compositore ed musicista straordinario. Consiglio soprattutto i suoi ultimi album, da History in poi, in cui compie un percorso “alla Beatles” dal pop ad elementi di musica contemporanea. Sono dischi poco conosciuti, meriterebbero una riscoperta. Io l’ascoltavo da giovanissimo a New York quando cantava con i Jackson Five e, da talebano del jazz quale ero, non avevo apprezzato. La sua mi era sembrata una voce femminile, così acuta. Poi ho avuto modo di ricredermi. Jackson è indubbiamente un grande dei nostri tempi. Un po’ come i Beatles che però non vanno “jazzificati” troppo. Hanno fatto cose bellissime ed è meglio lasciarle così come sono. I Beatles li ho conosciuti tardi, grazie alla mia compagna. Mi ricordo anche che Carla Bley ne era entusiasta, ma ai tempi a me non avevano colpito molto, ascoltavo altre cose. Ho imparato a capirli e ad amarli molto più avanti, praticamente negli anni Ottanta.

Parlando di rock, quali sono i suoi gruppi preferiti?

Quelli del mio tempo. Beatles, naturalmente. E poi i Rolling Stones, dovevo andare a vederli ma purtroppo ho dovuto rinunciare. Poi mi piacciono molto i Queen storici, quattro grandissimi musicisti. Non amo molto i Pink Floyd e i Genesis. Preferivo i Police e Sting continua ad essere fortissimo, come McCartney ed Elton John.

Adoro il funk e, nel 1969, negli States, ho avuto la fortuna di fare da spalla a Sly Stone con i Gas Mask, gruppo jazz rock prodotto da Teo Macero, avevamo un batterista formidabile, Jimmy Strassburg, che poi Stone volle nella sua band. Con Sly ogni sera era un’autentica avventura, correvamo bei rischi perché era spesso strafatto di droga e si presentava ai concerti in enorme ritardo. Noi aprivamo per lui e temevamo che il pubblico, tra cui c’erano spesso anche Pantere Nere, irritato, spaccasse tutto. Una volta a Washington è arrivato dopo due ore, per scusarsi ha detto che avrebbe suonato tutta la notte e se n’è andato dopo venti minuti. Hanno distrutto il teatro, ma noi eravamo già scappati…”

Un consiglio per un giovane che vuole fare musica sul serio.

Ascoltare tantissima musica, ma proprio tanta e studiare, studiare con maestri bravi, magari al Conservatorio, spendere tempo per trovare un ottimo insegnante. Da autodidatta dico: fate il contrario di quello che ho fatto io. A me è andata bene, ma non va sempre così.”

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