Peter Green, chitarrista e cantante scomparso il 25 luglio 2020 a Canvey Island (Essex), ha fondato i primi Fleetwood Mac, quelli di marca prettamente rock blues, per poi distanziarsene e incidere un disco fondamentale come The End of The Game. Chitarrista fantastico ed espressivo, mentre gli altri facevano gare di velocità, lui studiava a fondo i classici e ci immergeva dentro l’anima. Non sarà mai dimenticato perché il suo è uno stile inconfondibile, ricco di pathos e malinconia. Alla fine del gioco, c’è sempre il blues.
Nato Peter Allen Greenbaum il 29 ottobre 1946 a Londra, era uscito da quella fucina di talenti che furono i Bluesbreakers di John Mayall, dove aveva sostituito Eric Clapton che ebbe per lui parole di elogio: “Quando suona cerca esclusivamente di far parlare le emozioni. Non gli frega di mostrarti quanto è bravo o veloce. E poi ascolta che bending, che tocco, che vibrato…”. Con Mayall incise A Hard Road nel 1967 per poi prendere con sé il bassista John McVie e il batterista Mick Fleetwood (altri Bluesbreakers) e fondare i Fleetwood Mac. Il nome della ditta univa i cognomi dei due compagni, a dimostrazione di quanto poco Peter Green fosse egoista in proposito.
La band, integrata da un altro chitarrista, Jeremy Spencer, pubblicò con lui due album nel 1968, Fleetwood Mac e Mr.Wonderful e un terzo nel 1969 quando si aggiunse un’altra chitarra, quella di Danny Kirwan in Then Play On. Ebbe degli hit da classifica come la strumentale Albatross, ispirata dagli Shadows (e che a sua volta influenzò i Beatles di Sun King) e soprattutto Black Magic Woman, “scippata” da Carlos Santana. Oh Well, dal riff inconfondibile, divenne presto un classico: “Non chiedermi cosa penso di te, la risposta potrebbe non piacerti”.
E dire che il timbro unico della sua Gibson Les Paul era stato ottenuto casualmente, rimontando al contrario un pick-up per pulirlo. Amava grandi del blues come Howlin’ Wolf e Hubert Sumlin. Più che alla tecnica, era interessato all’emozione che si sprigionava dal suono. “Sumlin e Wolf ce l’avevano», ha dichiarato a Mojo nel 1996. «I chitarristi che copiavano i vecchi musicisti neri ne davano la loro interpretazione, ma non riuscivano a copiarne il sentimento. Era troppo profondo, troppo doloroso. Lo era anche per me. Alla fine mi sono inventato storie».
Ma già nel 1970, Peter Green che partecipò alla storica Blues Jam con i grandi maestri della Chess Willie Dixon, Otis Spann e Buddy Guy a Chicago, aveva la testa da tutt’altra parte, complice anche una certa predilezione per l’LSD e abbandonò il gruppo all’apice della fama. Green era impreparato a gestire il successo che gli era piovuto addosso e cominciò ad accusare seri problemi di tenuta psichica, come era accaduto a Syd Barrett con i Pink Floyd.
Nonostante questo, riuscì a pubblicare un album che non dovrebbe mancare in ogni discografia rock che si rispetti. The End of The Game, inciso nel 1970 con il pianoforte di Zoot Money e musicisti sconosciuti, mostra l’enorme qualità chitarristica di Green unita ad un’esplorazione psichedelica delle profondità dell’animo umano con venature jazz e scale discendenti.
Titolo che doveva rivelarsi profetico. Green abbandonò le scene e finì anche ricoverato in un ospedale psichiatrico, una delle tante sparizioni nel mondo del rock. Tornò ad incidere solo nel 1977, quando i Fleetwood Mac, con gli americani Stevie Nicks, Lindsey Buckingham e la moglie di John, Christine McVie in formazione cominciavano ad ottenere un successo planetario virando ad un pop-rock di alta classe.
Peter Green aveva ricominciato a suonare, con lo Splinter Group, ma il suono che aveva convinto BB King a chiamarlo nel 1971 per il suo album In London (“Sulla chitarra, ha il tocco più dolce che io abbia mai sentito. Quel ragazzo è l’unico che riesce a farmi sudare freddo quando suona!” ) non sarebbe più stato quello di prima. “La chitarra mi parlava, ma non posso più permettere che mi spezzi di nuovo il cuore”, dichiara Green nel bel documentario Man of The World, che prende il nome da uno dei grandi successi dei Fleetwood.
Lascia dietro di sé una scia di musica immortale che parla al cuore e all’anima. Ci sono tante ragioni per ascoltarlo. Un brano come Jumping at Shadows, registrato dal vivo al Boston Tea Party 1970, in cinque minuti racconta tutta la sua storia, tra dolore ed emozione. Peter Green ha preso questo pezzo di un oscuro bluesman bianco inglese, Duster Bennett e lo ha trasformato nella sua autobiografia in musica, mentre la sua chitarra piange e si arrabbia dolcemente.
Paolo Redaelli
ascolti
Bluesbreakers – A Hard Road (1967)
Fleetwood Mac – Blues Jam at Chess (1968)
Fleetwood Mac – Then Play On (1969)
Fleetwood Mac – Live in Boston (1970)
The End of The Game (1970)
In The Skies (1979)
visioni
Man of the World, di Steve Graham (2009)
parole
Martin Celmins – Peter Green, The Authorized Biography (ing.)