Con Chuck Berry e Jerry Lee Lewis (l’unico sopravvissuto, finora), Bo Diddley fa parte della triade dei durevoli padri del rock and roll. Elvis Presley è stato un grande interprete, ma si è allontanato dal genere all’inizio degli anni Sessanta, dopo il servizio militare. Little Richard ha deviato spesso dal percorso originario, tra crisi mistiche e tossicodipendenze.
Bo Diddley e gli altri due, no. Sono rimasti selvaggi ed energici, come si addice al ruolo, fino in fondo. E anche se le primavere sono passate, fino all’ultimo “The Originator of Rock and Roll” ha tenuto fede al suo nome, malgrado convivesse con diabete e ipertensione che lo hanno portato alla morte, anziano, il 2 giugno 2008 ad Archer, Florida.
Nato poverissimo come Ellas Otha Bates Mc Daniel a Mc Comb, Mississippi, il 30 dicembre 1928, ha iniziato a suonare quindicenne, nel 1943, dopo essersi infatuato di John Lee Hooker. Come Chuck Berry ha accelerato il blues, portandolo a diventare rock and roll e conquistando platee di bianchi, superando i confini della razza. Sono in molti a dovergli tantissimo, dai Rolling Stones agli U2 (peccato che Bono e soci non l’abbiano riconosciuto, ma Desire è figlia di Who Do You Love, 1956 e Mona, 1955), per citare solo due band di successo planetario. Il primo singolo, l’autocelebrativo Bo Diddley (significa “bullo” nello slang dei neri) è del 1955 ed esce per la Chess, mitica etichetta blues di Chicago. In precedenza, aveva fatto il camionista e il pugile.
Ha perfezionato uno stile “jungle”, chiamato appunto “Bo Diddley Beat” che si richiama molto alla Madre Africa: un ritmo tambureggiante e tribale, con maracas ossessive e basso sfrecciante, la chitarra multiforme (a stella, rettangolare, la famosa cigar box o ricoperta di pelliccia) diventata un marchio di fabbrica, insieme al cappello con il distintivo e gli occhiali neri.
Un’immagine che Bo non ha mai abbandonato. E’ comparso così, uomo del banco dei pegni, anche in Una poltrona per due, celebre film di John Landis del 1985 dove valuta “50 pezzi” il costosissimo orologio d’oro di Dan Aykroyd. Appare anche brevemente in The Blues Brothers (1980) e sul palco nel meno efficace sequel del 1998.
Nel 1959, quando il rock and roll sembrava tramontare (morto Buddy Holly, Elvis sotto le armi, Chuck Berry in galera, Little Richard diventato pastore d’anime e Jerry Lee Lewis in crisi), lui ha mantenuto fede alla sua chiesa, trasformandolo quasi in una sorta di religione sempre celebrata davanti a platee plaudenti.
Gli Animals di Eric Burdon gli hanno reso un monumento in vita con The Bo Diddley Story (incisa anche da Bob Seger, così come molti dei gruppi della British Invasion, tra cui i Them di Van Morrison (Mystic Eyes), Yardbirds, Kinks e Who (Magic Bus) sono stati influenzati dal suo suono ipnotico e straniante. Ma l’operazione più interessante è stata quella compiuta dai Quicksilver Messenger Service di John Cipollina e Gary Duncan che hanno trasformato Who Do You Love in una lunga suite he occupa un’intera facciata di Happy Trails (1969). Un brano che fu fatto proprio anche da Jim Morrison con i Doors. Ronnie Hawkins con The Hawks, diventati poi The Band e molti altri, tra cui George Thorogood e Santana.
Questo pezzo e Mona (ripresa anche da Bruce Springsteen, altro figlioccio d’arte, nei suoi live mixata a She’s The One, debito pagato), basterebbero già a meritargli un posto nella storia del rock. Poi ci sono anche I’m a Man (1955, cover di Yardbirds, The Who, Tom Petty, Dr.Feelgood tra gli altri), inserita nel 2012 dalla Biblioteca del Congresso tra le incisioni “culturalmente, storicamente o esteticamente rilevanti” ed entrata nel 2018 nella Blues Hall of Fame) e Road Runner, Hey, Bo Diddley (1957, Moody Blues e Grateful Dead), Before You Accuse Me (Clapton e Hendrix).
Diddley è stato uomo di intuizioni brevi e geniali, avvezzo alla dimensione del 45 giri più che dell’album intero, come molti rockers primigeni. Per avvicinarsi al suo rock’n’roll nero e sincopato basta uno qualsiasi dei tanti album incisi, spesso ripetitivi ma comunque esaustivi di una carriera che ha visto la sua fase maggiormente creativa dalla metà alla fine degli anni Cinquanta. La stima delle generazioni successive lo avrebbe tenuto in vita, musicalmente, fino al terzo millennio.
Nel 1966 incise The Originator of Rock and Roll per ribadire il suo ruolo di pioniere che ha aperto la strada a molti. Tra questi, Buddy Holly (Not Fade Away ha un incidere diddleyano), Eric Clapton, Them (Mystic Eyes), Jimi Hendrix e numerosi altri. E’stato il primo musicista rock ad includere nella band figure femminili, ha apportato innovazioni importanti alla chitarra elettrica poi applicate da altri musicisti in seguito.
Joe Strummer lo ha voluto nel 1979 ad aprire i concerti dei Clash all’apice della fama. Un altro che gli deve molto, Edoardo Bennato, ha duettato con lui nel brano Here Comes Bo Diddley che chiude Il Paese dei Balocchi (1992), omaggio ad un rocker d’altri tempi da un rocker di oggi.
Paolo Redaelli
Ascolti
Bo Diddley (1958)
Go Bo Diddley (1959)
The Originator of Rock and Roll (1966)
Super Blues (con Muddy Waters e Little Walter, 1967)
Visioni
Chuck Berry & Bo Diddley – Rock’n’Roll All Star Jam (1987)
Parole
George R.White – Bo Diddley: Living Legend (1995)