John Bonham è parte integrante e indissolubile del suono dei Led Zeppelin. Quel suono potente e magico, melodico e tonante che Jimmy Page voleva creare quando avvertì: “Non ci occupiamo di tecnica, ci occupiamo di emozioni”. Al punto che quando Bonzo morì, di troppa vodka, il 25 settembre 1980 (cade quest’anno il quarantennale), il gruppo fu concorde nel considerare terminata l’avventura.
Era nato John Henry a Redditch, Worcestershire, il 31 maggio 1948. A cinque anni suonava già un drum kit fatto di lattine di caffè. Coetaneo di Robert Plant, di lui compagno nei Crawling King Snake e nella Band of Joy, che lo volle con sé anche nei New Yardbirds che Page stava tramutando in Led Zeppelin. Non aveva nemmeno ventun anni,come Robert, quindi, quando uscì il folgorante debutto del Dirigibile, il 12 gennaio 1969. Uno degli esordi più fragorosi che la storia del rock ricordi.
Ho incontrato Bonham tra i solchi di Led Zeppelin II, anno 1973, un disco che cambiò per sempre la mia vita di ascoltatore, abituato finora come massimo della trasgressione al suono pettinato dei Beatles. Il drumming pesante e la psichedelia blues di Whole Lotta Love, gli armeggiamenti di piatti e tamburi su Moby Dick, le delicate tessiture percussive di Ramble On. Poi, la musica, non fu più la stessa.
Bonzo era un batterista dinamico, energetico, roboante (Four Sticks, sul quarto album, Kashmir, da Physical Graffiti) che sapeva anche essere melodico e descrittivo. Un re della percussione che riusciva a disegnare paesaggi sonori, come Carl Palmer o Ginger Baker, quest’ultimo tra i suoi idoli con il jazzista Buddy Rich. “Credo che nella batteria il feeling sia molto più importante della mera tecnica: è fantastico suonare un triplo paradiddle… ma chi si accorge veramente che lo stai facendo?” diceva. Epico e possente come Keith Moon degli Who, il folletto che aveva sentenziato maligno: “Se fonderete una band, si fracasserà al suolo come un dirigibile carico di piombo”. Mai frase fu meno profetica, ma forse nel nascente Zeppelin, Keith vedeva una minaccia al titolo di “più grande band del mondo” che gli Who arrogavano per sé.
I Led Zeppelin vennero al mondo della musica quando gli Who erano nel pieno del successo, con Tommy, opera rock di Pete Townshend. Ma in pochi anni sarebbero stati in grado di competere con Daltrey & C. e la questione di chi fosse migliore tra le due band è irrisolta, come Coppi al confronto di Bartali o la mamma opposta al papà. Questione di cuore, non di merito.
Bonham visse con furiosa energia dissipatrice quegli anni d’oro. Leggendarie le sue sbronze e gli scoppi di violenza che fecero degli Zepps la band meno gradita negli hotel di tutto il mondo e meritarono a lui il soprannome di The Beast. Forse il tutto mascherava un’insicurezza di fondo, chissà. Che scompariva al cospetto di piatti, tamburi e gong quando Sua Maestà il Batterista prendeva posto sul seggiolino. Leggendari anche i suoi solo di batteria percossi con le mani, che molti avrebbero poi cercato di imitare.
La sua sfrenatezza dentro (ma diretta ai fini creativi) e fuori dal palco (dove si dirigeva verso l’autodistruzione) avrebbe ben presto chiesto il conto. Nel 1978, vittima dei suoi stessi vizi, come spesso accade, se n’era andato Keith. Lui lo seguì nel 1980, dopo una fatale bevuta di vodka ai limiti dell’umano. Così, nel giro di due anni il rock fu privato, uno dopo l’altro, di due dei più grandi batteristi della sua storia, forse i migliori di tutti. E finì anche la favola dei Led Zeppelin, il gruppo che si era costruito una scala per il paradiso, ma che si vide precipitato improvvisamente all’inferno quando, va detto, comunque la parabola creativa andava discendendo.
“La perdita del nostro caro amico e il profondo senso di rispetto che nutriamo verso la sua famiglia ci hanno portato a decidere che non possiamo più continuare come eravamo.» scrissero gli altri tre dopo la sua scomparsa. E così fu. Gli Zeppelin non si riunirono per decenni (al Live Aid 1985 suonarono con Phil Collins) e quando nel 2007 decisero di farlo, la scelta più logica fu di chiamare un altro Bonham, Jason, dietro i tamburi nel nome del padre. L’unico che in qualche modo avrebbe potuto sosttuire Bonzo, sangue del suo sangue, bacchette delle sue bacchette. In qualche modo, “martello degli Dei” anche lui.
Paolo Redaelli
ascolti
Led Zeppelin – I
Led Zeppelin – II
Led Zeppelin – III
Led Zeppelin – IV
Led Zeppelin – Physical Graffiti
visioni
The Song Remains The Same (1975)
Led Zeppelin (dvd, 2003)
parole
Stephen Davis – Il martello degli Dei. La saga dei Led Zeppelin (1985)
Alex Andros – Oltre il suono dei Led Zeppelin (2017)
Tiberio Snaidero – La filosofia dei Led Zeppelin (2018)