“We are the Mods” al Dehon di Bologna: un fiume che continua a scorrere

Chiedi chi erano i Mods. Ti risponderanno, come ha fatto al Teatro Dehon di Bologna un pugno di attori, musici e critici, che ci sono ancora, che c’è un sottile filo rosso che lega i “modernists” degli anni Sessanta a quelli di oggi, da The Kinks a The Kooks.
We are the Mods, dunque. Come un fiume sotterraneo che ogni tanto ritorna in superficie, in questa rassegna Bologna tra le nuvole.

Ci sono i Pretty Green, per esempio, che rifanno le canzoni degli Who, dei Jam e degli Oasis. Sul palco, allestito come un pub inglese, eseguono i brani topici dell’era mentre Marco Coppi guida nel mondo mod con parole e brevi filmati e l’attrice Cristina Monti recita il verso immortale: “Spero di morire prima di diventare vecchio”, da My Generation degli Who.

Questione di stile, rigorosamente abiti italiani di buon taglio, di insoddisfazione latente che sfocia in risse da spiaggia con i rivali rockers. Ma anche una coscienza di classe proletaria che viene a farsi strada lentamente in mezzo a suoni “black” importati dall’America, beat secco e pungente, vestirsi bene per distinguersi dagli altri, rivendicare una propria ricchezza anche se ricchi proprio non si è.

Gli alfieri del movimento, mentre impazza ancora Beatlemania, sono The Who, che dettano il punk con un decennio di anticipo e dal punk saranno poi vilipesi. Ma è ancora presto: ci sono questi quattro ragazzini inquieti che spaccano i palchi, con tre accordi scrivono nel 1965 il primo inno generazionale in cui i giovani cominciano a pensarsi come categoria distinta. Il critico musicale Livio Mazzi, sollecitato da Coppi, traccia le coordinate musicali di un rock and roll perfezionato e sviluppato a trazione anteriore.

Mentre il beat nostrano (che importeremo da lì, con Rokes, Primitives e Renegades) rimane melodico, questi puntano sull’energia animale. I Pretty Green cercano di replicarla, con You Really Got Me Now dei Kinks e Satisfaction degli Stones, altro anthem generazionale che rimane essenzialmente un rythm’n’blues con quella chitarra simile ad un sassofono, come dimostrerà la successiva versione di Otis Redding.

Dalla black music i mods attingono la forza espressiva, i Kinks prefigurano anche l’heavy metal con quel riff duro. Ci sono anche gli Small Faces che poi diventeranno Faces e lanceranno Rod Stewart, mod anche lui, sarebbe stato bello approfondire. Invece si tocca Woodstock, apice e fine del sogno hippie, andando un po’ fuori tema con la Star Spangled hendrixiana e l’Urlo di Allen Ginsberg.

Nella seconda parte i Pretty Green appaiono più a loro agio, con i Jam e il loro “mod revival” del ‘77. In the City suona secca e nervosa. “Ma questo è punk!”, provoca Coppi. “Per i suoni sì, per l’abito no”, spiega il chitarrista. “Polo Fred Perry e trench in contrapposizione a jeans logori e nasi forati”.

Ma non è solo un fatto di mod(a). I Jam rileggono Kinks e Who, Paul Weller inventerà il white soul con gli Style Council (su My Ever Changing Moods, elogio dei mutevoli stati d’animo, il cantante si perde un po’, ma obiettivamente è un pezzo difficile), codificherà lo stile. Poi verranno i “nipoti” Oasis e Blur, Suede e Pulp, nasce il brit-pop e nei rissosi fratellini Gallagher c’è la netta impronta dei loro predecessori sulle spiagge di Brighton.

Buone versioni di Wonderwall e Don’t Look Back in Anger evocate da Jim, inglese di Plymouth (e prima da Joanna, modette negli anni Ottanta) infiammano il pubblico, così come la Bittersweet Symphony, inno urbano dei Verve incautamente tratto dagli Stones e si arriva al nuovo millennio con epigoni come The Kooks e la loro Do you Wanna. Tutte Rock and Roll Stars, ma ci sarebbero state senza quei tre accordi?

Paolo Redaelli

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