Cinquant’anni esatti, ma non li dimostra. Il 22 ottobre 1969 usciva il secondo album dei Led Zeppelin, appena nove mesi dopo il primo, fulminante, esordio. In mezzo ai due, una tournée americana a cui li aveva “costretti” il manager Peter Grant, primo ad essere consapevole della loro grandezza.
E’un album monolitico, ancora più del precedente, in cui sono presenti tutte le coordinate di quello che verrà. Gli Zeppelin portano ad alta quota il blues, lo immergono nella psichedelia, a colpi di riff indimenticabili e del Theremin di Jimmy Page. La voce di Robert Plant sale possente ed incorrotta e dopo la risata e i primi tre accordi di Whole Lotta Love, niente sarà più come prima. Il basso di John Paul Jones ha corde d’acciaio, la batteria di John Bonham è tuono rotolante.
In men che non si dica gli Zep, formatisi neanche un anno prima dalle ceneri degli Yardbirds, scalzano un capolavoro come Abbey Road dei Beatles dalla vetta delle classifiche USA, dove rimarranno per sette settimane al numero 1. In Gran Bretagna ci arrivano nel febbraio 1970, ma ci resteranno in totale per 138 settimane. Nuovi Fab Four si annunciano al tramonto dei primi.
Il secondo album, caratterizzato come il primo da un numero romano ordinale, è un dirigibile in fiamme che esplode al largo di Orione, cita Willie Dixon e J.R.R. Tolkien (Ramble On, con il suo folk alla Pentangle che sfocia in schegge roventi di rock duro), Jimi Hendrix (i testi di Thank You ricalcano quelli di If 6 was 9), il Barone Rosso (nella foto che ha ispirato la copertina), pone le basi dell’heavy metal a venire. Ma anche di molto altro ancora.
La chitarra di Page è essenziale eppure immaginifica, Bonzo e Jones creano trame ritmiche impossibili, Plant in un pezzo come Bring It On Home a vent’anni ha la voce di un bluesman pieno di rughe. Nuovi eroi vengono alla luce.
Non c’ è un pezzo debole (neanche Living Loving Maid, con i depositi delle ultime scorie di beat), “all killer no filler”, come si dice. Un disco che anche dopo mezzo secolo ti riporta gli stessi brividi della prima volta, con il basso al tritolo di Jones su Heartbreaker (la prima volta segui solo la chitarra, poi ti accorgi del resto), la batteria descrittiva di Bonham che crea mondi su Moby Dick, dal vivo un topic, più che un solo.
E poi The Lemon Song, furto amorevole (Love Theft, per dirla con Bob Dylan) ma non autorizzato dal grande Robert Johnson, il blues che si trasforma in una cavalcata (in tutti i sensi, considerato il soggetto) What is and What Should Never Be con il gong di Bonzo che “apre” il brano, lo fa decollare.
Un disco che molti eroi del dopo hanno ascoltato a ripetizione e metabolizzato, dai Red Hot Chili Peppers ai Black Crowes, dai Pearl Jam a Jeff Buckley e molti altri ancora, traendovi ispirazione e probabilmente godimento.
Album immortale, sempre nuovo ad ogni ascolto. A distanza di cinquant’anni, con molto rock passato sotto i ponti, si può ben dirlo.
Paolo Redaelli