Bert Sommer, l’unico che non divenne famoso a Woodstock

Creedence, Santana, Canned Heat, Janis Joplin, Crosby Stills Nash & Young, Jefferson Airplane, The Who, The Band, Joe Cocker. Tutti quelli che salirono sul palco a Woodstock divennero famosi o accrebbero la loro fama. Lui no.
Questa è l’alquanto triste storia di Bert Sommer, l’unico che a Woodstock non diventò famoso.

Nato ad Albany, stato di New York, il 7 febbraio 1949, quando partecipò al megafestival di Bethel aveva poco più di vent’anni. Salì sul palco nella prima giornata di venerdì 15 agosto, dopo Richie Havens, Country Joe Mc Donald, John Sebastian (che aveva lasciato improvvisamente il palco, dopo aver saputo che era diventato padre) e Incredible String Band, una posizione in scaletta che avrebbe stroncato chiunque. Cantò le sue canzoni (Jennifer, The Road to Travel, stesso titolo del suo primo album, I Wondered Where You Be, She’s Gone, Things Are Going My Way, And When It’s Over, Jeanette) e fu particolarmente apprezzato per una versione di America di Paul Simon, poi concluse con un altro paio di suoi pezzi, A Note That Read e Smile.

Sull’esperienza di Woodstock scrisse una canzone We’re All Playing in the Same Band, che raggiunse il 48° posto in classifica nella Hot 100 di Billboard nel settembre del 1970. In quell’anno incise anche due album, Inside Bert Sommer e Bert Sommer (non aveva una grande fantasia per i titoli) e interpretò a Broadway il ruolo di Woof nel musical Hair. Sono suoi i capelli disegnati sulla locandina dello spettacolo. Prese parte nel 1976 al programma tv per bambini The Krofft Supershow e pubblicò un altro album, intitolato manco a dirlo, Bert Sommer. Forse intuiva la necessità di ribadire un nome che non sarebbe mai diventato famoso, né familiare.
Suonò comunque fino al giorno della sua morte, avvenuta presto, il 23 luglio 1990 a Troy (New York) per insufficienza respiratoria. Nel 2009, a sessant’anni dalla nascita e nel quarantennale del festival, il Wall Street Journal gli dedicò un articolo dal significativo titolo: “L’uomo dimenticato di Woodstock”.

Rimangono di lui quattro album di buone canzoni che pochi ricordano, uno sguardo dolce e malinconico in un viso da ragazzo incorniciato da capelli quasi afro. Avrebbe settant’anni, adesso e forse è il tempo di una riscoperta.

Paolo Redaelli

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