Woodstock cinquant’anni dopo. E’ passato mezzo secolo da quei tre giorni di pace, amore, musica (e fango) che segnarono lo spartiacque della musica: Fine dell’era hippy e del beat, inizio dell’era moderna che si sarebbe divisa in tanti rivoli: prog rock, country rock, folk rock, latin rock, hard rock, jazz rock e chi più ne ha più ne metta. Sarebbe finita anche l’epoca dell’ottimismo dopo la tragedia di Altamont, nel dicembre di quello stesso anno, con il ragazzo ucciso dagli Hell’s Angels che facevano il servizio d’ordine per i Rolling Stones.
Nonostante la ricorrenza importante, non si è riusciti a mettere in piedi una celebrazione degna dell’anniversario. Nel 1994 per il venticinquennale c’era stata la Mudstock alternativa nel fango con Red Hot Chili Peppers, Primus e Nine Inch Nails, Peter Gabriel e (sic!) Zucchero. Woodstock 1999 schierò ancora i Peppers, i Metallica, Moby e Rage Against The Machine tra gli altri, con una serie di incidenti. Tutto sommato, fedeli specchi delle relative epoche. Nel 2009 invece non si fece niente.
Quest’anno è saltata la Woodstock 50 che avrebbe schierato Miley Cyrus accanto a David Crosby e Joe Mc Donald, superstiti del 1969, anno di grazia per la musica. Per fortuna. Un’accozzaglia di nomi poco conosciuti assieme a quelli dei grandi vecchi sarebbe stata un insulto alla memoria di gente come Jimi Hendrix, Janis Joplin, Richie Havens che non sono qui a raccontarla.
I tre giorni iniziarono il 15 agosto 1969 alle 17 con Havens in una memorabile Freedom, poi Country Joe Mc Donald, John Sebastian, Arlo Guthrie e Joan Baez al sesto mese di gravidanza. L’indomani, il giorno più intenso con Santana, Canned Heat, Mountain, Janis Joplin, Sly Stone, Grateful Dead, Creedence.
Alle quattro del mattino del 17 la maratona si chiude con The Who, mentre i Jefferson Airplane suonano addirittura alle otto. Era iniziata alle due del pomeriggio con Joe Cocker, un temporale che aveva provocato una sosta di ore e quindi Country Joe & The Fish, Ten Years After, The Band, Blood Sweat and Tears e Johnny Winter.
Crosby Stills Nash & Young suonano alle tre del mattino del 18 e Hendrix chiude in modo memorabile alle nove con la sua Star Spangled Banner e una chitarra-mitragliatrice.
Di quei memorabili tre giorni rimangono tre dischi e un film. Il triplo album, che ho ascoltato a diciotto anni perché all’uscita non avevo l’età, è un documento abbastanza fedele di quei mitici concerti, anche se per problemi di diritti mancano diverse canzoni.
Il film di Wadleigh, anche quello visto in tarda adolescenza, riprende i protagonisti e il contesto, dando continuamente l’impressione che la situazione possa sfuggire di mano agli organizzatori da un momento all’altro. Riunire un milione di persone in una spianata quasi senza servizi, poco illuminata, su un palco artigianale a dir poco, poteva rivelarsi una catastrofe senza precedenti. Invece tutto andò bene e su quel palco salirono tutti i più grandi del momento, con l’eccezione di Bob Dylan, Stones, Doors e Led Zeppelin impegnati altrove con l’apoteosi finale affidata a Santana, Who e Hendrix che suonò quando il sole era già alto. Gli eroi sono lì, immortalati in una pellicola sgranata, momento irripetibile di arte, follia e controcultura. La chitarra mulinata e i salti di Pete Townshend, l’orgia percussionistica e la felicità dionisiaca di Soul Sacrifice, Hendrix che dà fuoco alla chitarra come in un rito sciamanico sono immagini che rimarranno scolpite per sempre nella memoria.
Forse, il modo migliore per celebrare questi cinquant’anni in cui la musica è cambiata tante volte, ma in fondo resta sempre la stessa (vedi il fenomeno Greta Van Fleet, ventenni che ricalcano il sound dei loro nonni) sarebbe quello di riunirsi con gli amici ad ascoltare questi tre dischi (in vinile, of course) e a vedere questo film. Alla faccia di Miley Cirus e in nome di Hendrix & Co.
Magari ricordando le parole di Elliott Tiber, uno degli organizzatori la cui storia è raccontata nell’originale film Motel Woodstock. «Non credo che un’altra Woodstock sarebbe possibile oggi; ci hanno provato un sacco di volte, ma erano solo semplici concerti»
Paolo Redaelli