In giro per il Biografilm 2019, guidati dalla musica: Don Diego, Strangers, Eva, Alì, cori norvegesi e stile rock

In giro per il Biografilm Festival 2019, a Bologna, facendomi guidare dalla passione per la musica, quel Musiclike (appunto) che tutti abbiamo. Tra scelte consapevoli, sorprese impreviste e piacevoli, un bel carico di emozioni in mezzo ad immagini e suoni, in un lungo e intenso weekend cinebiografico. Lungo anche il pezzo, abbiate se volete la pazienza di seguirmi.

Sulle tracce di Don Diego 

Parto deciso a vedere Greetings from Austin, documentario di Vittorio Bongiorno che racconta l’avventura texana di un gruppo rockabilly di Caltanissetta, siciliani come lui. Il Don Diego Trio, guidato dal quarantacinquenne Diego Geraci, Stetson calcato perennemente in testa come tutta la roots music dagli anni Trenta in poi, viene selezionato nella cinquina di finalisti all’Ameripolitan Awards inventato da Dale Watson. Il film mostra il trio (Diego, il contrabbassista Luca Chiappara, ventenne in rotta con il padre che pensa la musica sia una perdita di tempo, il taciturno batterista Sandro Pittari) con l’aggiunta del chitarrista Mario Monterosso, siculo di stanza a Memphis, alle prese con una città cosmopolita e piena di musica, più aperta rispetto al resto dello Stato. Concerti e incontri (con Chris Casello e Junior Brown, chitarristi superlativi), registrazioni in studio, sorrisi e malinconie (di essere troppo americani per l’Italia e troppo poco americani per gli Usa, tipico bagaglio che accompagna i compaesani all’estero), divertimento e ironia, alla ricerca del sound più genuino, della chitarra giusta (quella ricoperta di dollari di Watson?), dell’amplificatore giusto e del mood appropriato. Fino allo showdown conclusivo, ma non dico di più per non spoilerare la sorpresa di un piccolo film ben costruito, interpretato e diretto. Dopo la proiezione, Diego e Luca si lanciano in un breve two men show, suoni limpidi e piacevoli, ritmo e armonia. Anche perché il cd inciso in Texas se lo sono dimenticato a casa…

Lindsay Kemp, il sogno negato

La seconda vita che incontro è quella assolutamente fuori dall’ordinario di Lindsay Kemp, narrata da Edoardo Gabbriellini in My Best Dance Is Yet To Come, frase-manifesto del film. In un’intervista sui programmi futuri, il maestro di David Bowie e altri artisti racconta che “la mia migliore danza è ancora da venire”. Forse quel Dracula, agognato e poi abortito, tutto pronto con le musiche di Arturo Annecchino poi lo stop “forse perché non si riusciva a trovare un posto sul palco all’amica del sindaco”, commenta sornione l’autore di Flowers e Salomè, che si è visto negare l’ultimo sogno (è morto a Livorno il 24 agosto 2018) perché in Italia si fa così. Superiore alle ripicche, l’uomo si racconta e nel film vediamo un corpo statuario farsi vecchio e poi avvizzire, mentre la luce negli occhi, e l’anima, rimane quella di un ragazzino impertinente, pronto a dare gioia e rivoluzione.

I ragazzi del coro norvegese 

Venerdì alle 21.30 mi aspetta Songs from Other Strangers, ancora di Vittorio Bongiorno. Nell’attesa, scelgo a caso, dal catalogo di Biografilm, ore 18: Men’s room. Film norvegese di Petter Sommer e Jo Vemund Svensen su un coro maschile (“Coro di Uomini”, si chiama appunto) scelto per aprire i Black Sabbath a Tons of Rock. Nel repertorio hanno canzoni umoristiche vichinghe ma anche Why Does it Hurt When I Pee? di Frank Zappa e Perfect Day di Lou Reed. Tanto basta a conquistare le mie simpatie. Ma Men’s room non è solo un film di goliardi canori, scivola nel dramma e nella vita vera quando al direttore del coro, Ivar Krugh, viene diagnosticato un cancro e quindi sa che difficilmente potrà arrivare a dirigere i ragazzi nel Tons of Rock. Il film segue la lenta discesa e l’agonia di un uomo preso nella sua arte che troppo presto deve dare addio alla vita, il suo essere accompagnato verso la fine dall’affetto sincero dei coristi, è commovente e istruttivo. Insegna come si deve affrontare un distacco e come si deve pensare, dopo. Soprattutto a cantare.

Canzoni per altri stranieri

E dopo Steve Wynn, Hugo Race, John Parish, Stef Kamil Carlens, con Cesare Basile, Manuel Agnelli, Rodrigo D’Erasmo, Marta Collica, Giorgia Poli. Tutti insieme a provare canzoni dell’uno e dell’altro, a portarle sul palco, anche umilmente, in giro per l’Italia. Nessun frontman, l’ego messo da parte al servizio di una creazione sonora collettiva. Songs from Other Strangers di Vittorio Bongiorno li mostra all’opera on stage e fuori, alle prese con inquietudini personali e simpatia reciproca. C’è una frase bellissima di Hugo Race che suona più o meno come “capire il momento quando devi uscire da una canzone per fare entrare gli altri”. Dà la misura di cosa significa veramente “suonare insieme”. Una bella sorpresa Marta Collica, sommessa cantautrice tra Cat Power e Tori Amos. Gli altri li conosco. Strade che si incrociano, “sconosciuti” che si incontrano, chitarre, voci, suoni ruvidi e velvettiani. Bella compagnia, buon film che però non smuove troppe emozioni.

Chiamatemi Muhammad Ali

Sabato inizio con l’epopea di Muhammad Ali raccontata in What’s my Name? da Antoine Fuqua, regista di Training Day e del remake de I magnifici sette ponendo l’accento sia sull’impresa pugilistica che su quella umana. Cassius Clay parte sbruffone e chiacchierone, al collo la medaglia olimpica del 1960 a Roma, un titolo mondiale conquistato battendo inaspettatamente Sonny Liston. Attacca gli avversari a parole, ma fa parlare anche i pugni. Vince sempre, lo metteranno al tappeto solo in cinque su quasi sessanta combattimenti. Va in tv e diventa una star grazie al suo senso dell’ironia, fa anche musica (I’m the greatest vende 175 mila copie) e improvvisa poesie che sanno di rap. Poi abbraccia l’Islam, diventa Muhammad, rifiuta l’arruolamento in Vietnam (“nessun vietcong mi ha mai chiamato negro) e per questo gli tolgono medaglia e titolo, combatte per i diritti civili con Malcolm X e Martin Luther King, visita la madre Africa. Affronta a 34 anni a KinshasaFederico Buffa in “Una notte a Kinshasa” boxa con Ali e Foreman il venticinquenne George Foreman e lo batte nel Rumble in The Jungle così magistralmente narrato da Leon Gast in Quando eravamo re. Re Alì che cade e risorge, quando tutti lo davano perduto, per poi arrendersi al nuovo che avanza, perché alla fine c’è sempre chi è più “greater”. E umile e saggio quando affronta l’ultimo avversario, quel Parkinson che non è un pugile ma una malattia tremenda. Il film si chiude con Mohammed Alì tremante e “proud”, finalmente pacificato con l’America, che accende la fiaccola olimpica di Atlanta ‘96 e una campanella da ring che suona a morto. Da brividi.

Sesso, bugie e videotape

Searching for Eva di Pia Hellenthal è l’ epopea, più minima, in questo Biografilm, di Eva Collé, modella, blogger e sex worker bisessuale, tossicodipendente che vive a Berlino senza trovare se stessa e forse neppure cercandosi più di tanto. Anche qui tanta musica, “disegnata” da Marcus Zilz, dai Sonic Youth ai Bee Gees, I Started a Joke in una sequenza suggestiva di solitudine, con i fuochi di Capodanno sullo sfondo. Malinconia ed ironia, sesso, bugie e videotape per una storia non troppo comune e che fa discutere, pirandelliana perfino, pervasa da un sottile filo di angoscia. Una donna senza compromessi, dall’ identità liquida che decide di fare della propria vita un film. E viceversa.

Chiodo e minigonna, abiti rock

In due puntate in anteprima Stili Ribelli (serie che andrà su Sky Arte come tutti questi film, non perdeteli se potete) di Lara Rongoni racconta gli oggetti che hanno fatto la storia del rock. Con il “chiodo”, giubbotto di pelle passato da Marlon Brando a Sid Vicious e tuttora in voga, si narra il rock and roll e l’epopea nichilista del punk attraverso testimoni del tempo come Glen Matlock e Jordan Mooney, gli italiani Antonio “Tony Face” Bacciocchi, Carlo Bordone e Matteo Guarnaccia. La minigonna inventata da Mary Quant è simbolo di liberazione femminile e di stile, irriverenza ed erotismo sottile, fatta propria dalla cultura mod di Kenney Jones (batterista di Small Faces e Who) e da Pauline Black (frontwoman dei Selecter) che viene indagata con ricerca storica ed iconografica, sguardo attento e dritto nel futuro.

Musica, musica, musica

E, su tutto, la musica di questo Biografilm. Colonna sonora “black” strepitosa per Ali, con incursioni di Creedence, Bee Gees (ancora loro) e Spencer Davis Group, tra James Brown e Kool and The Gang, Sam Cooke e Aretha Franklin, che spesso erano a bordo ring a tifarlo. Musica delle radici americane e dei bassifondi di New York, gli zii Nick Cave, Frank Zappa e Lou Reed, palpiti di Swinging London, lo zoo di Berlino e tante altre suggestioni sonore. Da risentire e rivedere. Ancora e ancora.

Paolo Redaelli

PS. Nessuno di questi film ha vinto un premio al Biografilm. Qualcosa vorrà dire.

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