Come ogni rock band che si rispetti, anche i B-Boat si ritrovano spesso a provare e a creare musica in una saletta dentro un lungo tunnel di garage nella periferia di Bologna. Prima delle consuete prove, ho avuto l’occasione di intervistare questa giovane band, reduce peraltro dal concerto per la release dell’album “Oltre il Muro” a Labas.
Una prima cosa. Chi sono i B-Boat? Come mai avete scelto questo nome?
(Solomon B) I B-Boat sono un gruppo di ragazzi che hanno in comune la passione per la musica giamaicana e che hanno iniziato a suonarla per portare in giro il suo messaggio. Il nome “B-Boat” deriva dal titolo di una bellissima canzone di Harry Belafonte, la bellissima “Banana Boat”, una “slave song” che parla di una barca adibita al trasporto di banane in cui lavoravano gli schiavi neri.
Col tempo per noi questa “B-Boat” ha assunto diversi significati, ci piace continuare a considerarci una ciurma di amanti del reggae che viaggia in questo mondo, nell’attualità.
“Oltre il muro” è l’album frutto di un lavoro di due anni di progressi che la band ha fatto ed è la title track dello stesso. Considerando il titolo e la fase storica, viene da fare una considerazione: i muri dividono, è cosa abbastanza nota, ma nelle parole della canzone emergono altri tipi di muri, “i muri di casse”…
(Solomon B) La canzone è stata scelta di proposito da tutti noi per la valenza comunicativa che ha. Ci piaceva l’idea di sottolineare che l’unico muro che oggi può essere positivo è quello “di casse”, visto che i muri di questo momento storico sono fisici ed ideologici, capaci di bloccare il progresso delle società. L’unico muro che noi vorremmo vedere è questo, quello che al contrario “unisce nelle piazze le bandiere diverse”. La canzone va intesa anche come un tributo alla cultura del sound system che è parte integrante della musica reggae.
Rimaniamo nella fase storica di cui parli. La risposta di una buona parte del mondo della musica a tutto quel che denunci di fatto non c’è, si preferisce l’assenza di messaggio, spesso con artisti che lo rivendicano anche pubblicamente. Al contrario il vostro è un disco di messaggio, forte nel contenuto ma allo stesso tempo assolutamente divertente. Come vivete tutto questo? Voi date al pubblico anche il CD, siete “retrò” in un certo senso?
(Solomon B) Se il voler dare (ed avere) la copia fisica dell’album in questo momento così “digitale” significa essere “retrò”, beh, sì siamo “retrò”. L’idea di avere la copia fisica “alla vecchia” dà al tuo lavoro un respiro più ampio al tutto, puoi riascoltarlo tra 20, 50 anni e sentirlo ancora tuo, “reale”. Per quanto riguardo il messaggio al contrario non ci consideriamo “retrò”, siamo rispettosi e consapevoli dell’approccio che si deve avere nel fare la musica. Noi abbiamo un messaggio e la musica, in quanto per sua natura veicolo, deve veicolare un messaggio. Perché non approfittare di questo?
(Alberto) Penso che la ricezione di un messaggio sia soggettiva, e la capacità comunicativa fa sicuramente parte della sensibilità dell’artista che propone un certo tipo di testo. Deriva dal suo stile di vita, da quello che lo circonda. Non penso che tutto questo sia “retrò”, siamo sicuramente attaccati ad un certo tipo di liriche e di messaggi e sappiamo però dall’altro versante che la retorica “no sense” è comunque sempre esistita nella musica leggera. Negli anni ’60 e negli anni ’70 aveva uno spazio minore rispetto ad oggi, dove al contrario detengono le visualizzazioni su Spotify più alte…
(Matteo) Il messaggio è sempre vissuto nel momento storico. Dire “Oltre il muro”, oltre le barriere significa dire qualcosa di molto preciso, qualcosa di importante da far passare oggi secondo noi.
Essere artisti vuol dire prendere posizione…
(Fernando) Certo, la musica è uno strumento forte, non è solo intrattenimento, bisogna davvero approfittarne.
(Solomon B) Riguardo al prendere posizione, posizione nella vita, a prescindere dall’essere artista o meno, penso che dovrebbe essere la normalità di ognuno tutti i giorni. Non si può rimanere nelle domande senza cercare le risposte, avere una direzione.
Torniamo a questi “muri di casse”. Siete notoriamente degli assidui frequentatori di yard, di concerti, di dancehall e, al di fuori del vostro impegno in prima persona, possiamo affermare che vivete appieno tutta la scena reggae di questa città. Come influisce tutto questo con la vostra creatività e produzione artistica? La scena reggae vi dà indietro qualcosa che vi spinge a contribuire a questa? Qual’è poi il vostro giudizio sul movimento reggae e dancehall italiano?
(Solomon B) Siamo sicuramente dei frequentatori di yard abbastanza assidui, direi accaniti. La scena reggae ci dà molto, personalmente posso dire che tra i vari motivi che oggi mi fanno essere qui c’è sicuramente l’aver scoperto la cultura del soundsystem, lo scoprire le diverse yard e le diverse canzoni che mettono i vari djs e soundboys. È un dare-avere, è un loop che credo non finirà mai. Quando vado alle danz e sento delle nuove tunes, spesso trovo l’ispirazione per creare nuova musica. Sono esperienze e la nostra musica è frutto di esperienze.
(Alberto) Per me è anche un momento di studio musicale. Andare a vedere un concerto di un’artista giamaicano, che sia roots o contemporaneo, ti fa capire meglio la loro concezione di live, come strutturano un concerto, lo show. Vale lo stesso per i dj, dalla musica nuova che viene proposta a come viene proposta, come viene mixata, come si susseguono le diverse canzoni. In definitiva è un momento di apprendimento a tutti gli effetti.
Andiamo sul personale. Solitamente chi anima questo movimento ricorda precisamente il primo approccio al reggae. Avete voglia di condividere con noi alcuni di questi momenti?
(Fernando) Ho sempre conosciuto il reggae ma un’esperienza sicuramente importante è stata la prima volta al Rototom Sunsplash vicino Udine. Dissi “basta, adesso faccio reggae”.
(Solomon B) Il primo artista reggae che ho ascoltato è stato Teddy Afro ma solo quando sono arrivato in Italia ho capito che poteva essere ricondotto a quest’ambito musicale. Teddy Afro è un cantante molto popolare in Etiopia, attivo politicamente, direi culturalmente “nazional popolare”.
(Matteo) L’ascolto di “Catch a Fyah” di Bob Marley & The Wailers mi ha fatto capire che il reggae poteva essere parte della mia vita.
(Andrea) Io ci sono arrivato grazie a GTA, il videogioco! Quando guidavi potevi ascoltare la radio reggae, mi sciallavo. Io amo molto la musica psichedelica in tutte le sue manifestazioni, trovo che nel reggae ci sia un aspetto psichedelico, così come nel dub. Ho trovato in queste ragioni il primo approccio al reggae, in più vivendo l’ambito del Salento sono stato facilitato. Solo a Bologna però mi sono trovato bene con un esperienza in una band.
A questo punto è necessario il prossimo passo. L’abbiamo detto, siete tutti dei “reggae addicted” ma ognuno di voi ha una storia musicale diversa alle spalle. Per tutte le esperienze che portate, possiamo definirvi nel complesso una “rock band”?
(Alberto) Quando il rock è entrato nel reggae, questo genere si è aperto al mondo. Il più grande incontro di questi due mondi è ancora rappresentato da Bob Marley, ha sicuramente portato il reggae in giro per il mondo. Noi siamo una band “rock” perché manteniamo un approccio viscerale alla musica, come può essere quello di una rock band. Abbiamo scelto apposta un pezzo dei King Crimson per fare l’intro dei nostri live.
(Matteo) Come diceva Alberto questo incontro tra i generi è importante, per le esperienze che abbiamo alle spalle sarebbe riduttivo soffermarsi solo sul reggae. Ognuno di noi ha suonato con diverse band, da quelle di musica popolare a quelle di rock psichedelico, e tutto questo filtrato e portato nel reggae assume un aspetto molto interessante che non ha limiti.
In due anni vi siete affermati come band da live, avete calcato parecchi palchi importanti. Festival e concerti con ospiti di calibro nazionale ed internazionale. Quali sono le esperienze che vi hanno colpito ed ispirato di più?
(Alberto) Per me l’esperienza più bella è stata il poter suonare prima del live di Anthony B sul palco del Reno Splash Festival a Marzabotto. Suonare dentro un festival è sempre una cosa molto emozionante e lo stare a contatto con uno degli idoli di quando eri ragazzino rappresenta qualcosa di forte. Vederlo dal vivo, vedere come sta sul palco, come viene accompagnato dalla band e seguire dalle quinte come viene gestito il tutto rimane un momento molto formativo.
(Solomon B) Non si può non citare la nostra esperienza al concerto di Alpha Blondy iniziata col viaggio in una Panda carica di strumenti con destinazione la bellissima location del Castello Tramontano. Aprire Alpha Blondy non capita a tutti, ancora oggi ringrazio la band per aver saputo calcare quel palco e per aver assistito al concerto di questo grande artista.
(Andrea) Lo potremo raccontare ai nipoti.
Ne potete raccontare molte di esperienze come queste: il palco di Piazza Maggiore prima della Banda Bassotti…
(Solomon B) … Horace Andy al Sottotetto, anche questo è stato importante.
(Fernando) Il concerto per la release dell’album a Labas.
Volete dire due parole rispetto al concerto per la release dell’album a Labas?
(Solomon B) È stato sicuramente un momento molto forte, la sala era piena di gente ma, nonostante fossimo all’interno di un Centro Sociale che come contesto attira moltissime persone, non me lo aspettavo. Mi sono sorpreso anch’io di “noi” per questo test. Abbiamo notato un pubblico molto attento ed i feedback che abbiamo ricevuto di persona sono stati estremamente positivi.
(Alberto) È stato anche un momento di grande soddisfazione perché era veramente il frutto di tantissime ore di lavoro, di prove, di arrangiamenti, di studio della scaletta. Abbiamo studiato tutte le parti in maniera davvero maniacale. Ripensandoci, è stato il nostro primo concerto fatto in maniera così strutturata. Prima ci capitava di calcare sopratutto live “piccoli”, delle aperture dove puoi suonare al massimo 5 o 6 pezzi e che ti portano a fare delle scelte di impatto. Fare un live intero dove sei tu il protagonista e dove soprattutto proponi della musica inedita è stata una grande sfida.
(Ruggero) …Dicevamo comunque che eravamo stranamente “tranquilli”. Forse portare la propria musica è come parlare la propria lingua, ci si riesce a capire.
Prima Fernando ha citato il Rototom Sunsplash Festival come vero momento di svolta per iniziare questo suo cammino nella reggae music. È ancora importante oggi partecipare a questi festival per una band che fa roots rock reggae? Per artisti e pubblico valgono ancora molto questi momenti?
(Ruggero) La prima cosa che deve fare un festival è puntare al pubblico più che all’artista, nel senso che un festival è più cose rispetto alla sola esibizione degli artisti. L’artista contribuisce a tutto questo, ma il ritorno culturale al pubblico è complessivo.
(Matteo) Il contesto e l’atmosfera sono i principali elementi di un festival, come appunto succede nei festival come il Rototom…
…anche come il Reno Splash a Marzabotto?
(Matteo) Certo, il festival non si limita al concerto finale, l’esperienza inizia dal pomeriggio con i preparativi, l’organizzazione, con le prime famiglie che arrivano in questi posti bellissimi. Questa è l’atmosfera dei festival, solitamente all’interno di scenari naturali bellissimi. Il concerto è l’atto finale e rimane per l’artista un momento fondamentale per fare roots rock reggae, ma quel che i festival ti ridanno indietro è molto di più.
Cosa avete imparato in questi due anni? Dove vi porterà questo percorso? In che progetti?
(Solomon B) Sicuramente la possibilità di calcare diversi palchi ti da sicurezza. Palco dopo palco accumuli esperienza. Come frontman devo riuscire a gestire la mia ansia di non sbagliare ed ho capito che più palchi calchi più riesci a gestire la situazione. Dove vogliamo andare? Non sappiamo precisamente dove andremo, sappiamo però come vogliamo fare le cose. Vogliamo mantenere un’attitudine seria, portare attraverso il reggae la nostra esperienza, sperando di poter andare lontano. Per quest’estate abbiamo già fissato alcune date nel sud Italia, in alcuni festival…
(Fernando)… un primo concerto lo terremo alla Festa della Zuppa al Parco Pasolini, nel quartiere Pilastro di Bologna.
Un’ultima domanda che rivolgo a tutti: qual’è la qualità più importante per un’artista? cosa vi suggerisce la vostra esperienza? Qual’è l’elemento collettivo che vi porta ad essere insieme e al suonare dentro una roots rock reggae band?
(Alberto) La qualità migliore che un’artista può avere è la sincerità, la consapevolezza dei propri strumenti, non ponendosi limiti ma cercando di migliorarsi sempre. Avere umiltà ti aiuta a rimanere coi piedi per terra e ti fa lavorare con la giusta testa.
(Matteo) Definirsi artista è complesso, difficilmente ti autodefinisci direttamente “artista”, comunque in generale credo che debba avere quella sensibilità accentuata che filtra quel che lo circonda o quel trova nel passato, comunicandolo attraverso gli strumenti o le liriche.
(Andrea) Secondo me l’artista deve essere visionario, deve portare un concetto nuovo con un punto di vista molto ben definito. È tutto sommato facile suonare e realizzare un buon prodotto, ma è difficile avere un punto di vista. Per me questo determina la differenza tra un vero artista ed un altro mestiere: puoi essere anche un ottimo musicista, ma se non comunichi qualcosa di tuo, se non smuovi un minimo l’immaginario nel pubblico, difficilmente sarai un bravo artista.
“Oltre il Muro” è su Spotify e BandCamp