Sola e nuda in scena, Silvia Gallerano ha avvinto per un’ora gli spettatori di un Teatro Duse esaurito per “La merda”, giovedì 7 marzo. Un modo insolito di celebrare la festa della donna, con uno spettacolo che racconta l’umana avventura di una ragazza “brutta” nel mondo dominato dagli uomini, tra spot pubblicitari, violenze subite, immagine paterna, ansie personali e una buona dose di humour. Malgrado il titolo, la piéce di Cristian Ceresoli, accolta in mezzo mondo con l’attesa che si riserva ad un concerto rock, non è uno spettacolo forte. Anzi. Giocato tutto sul filo dell’ironia, scava con profondità in quel “pantano culturale” definito da Pasolini agli albori della società dei consumi.
Sola e nuda in scena, Silvia Gallerano lo è anche mentre gli spettatori entrano in sala. Appollaiata e rannicchiata su un alto sgabello, da dove non scenderà per tutta la durata della rappresentazione. Da qui, comincia a snocciolare, nella sua riflessione scatologica, i ricordi di un padre infatuato di Garibaldi e dal linguaggio quasi militaresco, ma comunque capace di tenerezza. “Ci vuole coraggio, a buttarsi sotto un autobus, e nemmeno sei sicuro che a quell’ora passano”, e capiamo che il padre che l’ha lasciata sola a tredici anni, con una madre apprensiva sul cibo come tutte le mamme (“Ma mangi abbastanza?) si è suicidato. Lei è in attesa di un provino per una pubblicità in cui, malgrado tutti gli sforzi che ha fatto da adolescente per liberarsi delle sue cosce abbondanti (una signora dalla voce flautata come Wanda Osiris le infilava elettrodi per liberarsene) dovrà essere “bassa e grassa”, come impone la produzione. Una situazione paradossale, in un mondo che chiede sempre la perfezione, donne magre e scattante. Qui invece dovrà tornare sui suoi passi, aggiungendo invece di togliere.
Sola e nuda in scena, Silvia Gallerano. Ma recita con estrema naturalezza e dopo un po’ non si fa più caso alla sua nudità, paradigmatica di un voler mettersi a nudo, di confidare aspirazioni e delusioni, con una vocina un po’petulante che di volta in volta, con grande esercizio di doti artistiche, si trasforma in quella della padre, della madre, delle persone incontrate per strada nella vita. Come il compagno di scuola handicappato che le chiede senza mezzi termini di toccarlo e si commuove perché lei è stata l’unica a rivolgergli la parola. Un sesso sbrigativo, consumato soprattutto per il piacere del maschio dietro le automobili del professori, con poca gioia e tanti rimorsi. Scorre davanti a noi la vita della protagonista, schiava delle convenzioni (il verbo “ingoiare” ricorre spesso) e comunque desiderosa di liberarsi, di diventare una donna diversa, acclamata dalle folle, invitata in tv, riconosciuta per strada.
Divertente il confronto con la madre, dubbiosa su questa proposta (“ma ti pagano?”) e comunque vogliosa di comunicarlo (“ma posso dirlo alla zia”), straordinario il rap con cui, nello sforzo di ingerire più cibo possibile, Silvia enumera cibi e nel contempo frammenti di ricordi, versi della canzone (dovrà cantare nello spot “Fratelli d’Italia”), rimasugli di vita in un pastone da digerire con sforzo. Ma non ce la fa, dovrà correre al gabinetto per liberarsi. “E allora mi sono sgonfiata” . Tutto da rifare. Da qui la decisione, estrema: ingoio di nuovo tutta questa merda, mi mangio il mondo immondo, ritorno ad essere quella grassa che vogliono, per farcela, per essere una donna diversa. Per liberarmi, finalmente. Ed esplodere in un grido liberatorio, definitivo.
Applausi scroscianti per la Gallerano che dopo aver cantato una versione quasi blues dell’inno di Mameli, torna in scena avvolta nel tricolore italiano. Ben tre le richiamate in scena che testimoniano l’accoglienza calorosa del pubblico del Duse ad una proposta non facile. Silvia, sola e nuda nel mondo, con la sua interpretazione “di pancia” ha colpito nel segno.
Paolo Redaelli