Il concerto di Mario Biondi all’ Europauditorium di Bologna, sabato 22 dicembre, ha celebrato l’unione tra due delle migliori realtà musicali italiane del momento. Da una parte lui, il cantante dal vocione di fama internazionale, con lo swing al posto giusto, il gigante (m.1-96) del soul, ma anche fine arrangiatore. Dall’altra i Quintorigo, quartetto atitpico, tre archi ed un sax, impegnati con la musica “difficile” di Hendrix, Zappa, Mingus a fornire il background giusto.
Un concerto atipico, variegato, con Biondi a suo agio nello spaziare tra latitudini musicali e geografiche diverse: dall’America del jazz di Davis e Coltrane al Brasile (“Rio De Janeiro”, invocata ed evocata), all’Africa con un paio di blues rivisitati in chiave totalmente emozionale, doverosi omaggi a Pino Daniele e Lucio Dalla, a Burt Bacharach, che per lui ha scritto una bella canzone. Un concerto che ha elevato a funzione solista il basso magistrale di Federico Malaman, corde che si moltiplicavano a diventare chitarra, arpeggi e contrappunti, loop e svisate, attitudine funky assoluta. Che ha messo in vetrina un formidabile batterista diciassettenne di Los Angeles come Tosh Peterson, vera macchina di un ritmo instancabile. Un tastierista-polistrumentista-vocalist efficace come il siculo Max Greco da Messina che ha rievocato anche il Pedro Aznar del Pat Metheny Group in un cantato pieno di pathos.
I romagnoli Quintorigo, acclamatissimi, sono ben più di una backing band: accompagnano il sound come a Philadelphia, ma si addentrano anche in sonorità impervie, in uno stacco centrale che richiama scansioni zappiane e crimsoniane. Valentino Bianchi al sax tenore, soprano e baritono dipinge con colori diversi le melodie e i ritmi biondiani, è una colonna solida che sostiene il cantato afro-mediterraneo del vocalist. Violino e violoncello e contrabbasso elettrificati assumono tonalità imprevedibili e impreviste. Si gode parecchio.
E poi lui, Marione, padrone assoluto della scena, leader che lascia il giusto spazio ai suoi musicisti, che ogni tanto si siede sulla poltrona ad ascoltarli, che manovra con abilità tastiere e theremin. Con quella voce profonda che ti riempie un teatro da millesettecento posti, duttile e malleabile come le proprietà dei materiali che si studiavano a scuola nelle applicazioni tecniche, pronta a salire quando è il caso e a ridiscendere fino alla punta dei piedi, appoggiandosi al testo e alla musica con grazia mirabile.
Sono buone vibrazioni quelle che Biondi dispensa a piene mani, zigzagando fra vari territori musicali, funkeggiando e souleggiando come solo lui in Italia sa fare. E gli americani che lo hanno apprezzato per primi lo sanno bene. Italians do it better, come diceva la signora Ciccone, una che se ne intende.
Il repertorio scivola via tra i passi fondamentali di una carriera, toccando la parentesi autoriale sanremese, ringraziando più volte il pubblico bolognese per il suo calore e la sua accoglienza (“Vi ho citato più volte nel corso del tour invernale, non è vero Max?” chiede conferma al tastierista) culminando nello swing contemporaneo e irresistibile di “This is What You Are” quando presenta la band e invita l’audience (non che ci sia bisogno di stimoli, per la verità) a cantarla insieme a lui.
Ed è tempo di Shalalalalala la la, e la gente non vorrebbe che finisse mai. Siamo diventati tutti Biondi, stasera. Anche quelli calvi.