Non sono un fan dei Queen, ma Bohemian Rhapsody per me è un ottimo film, che narra in modo efficace l’ascesa e il declino di una grande rock band e il talento mostruoso di Freddie Mercury, performer assoluto nella storia della musica ma anche compositore geniale, capace di unire l’urgenza del rock alla complessità melodica. Eccettuato forse il capolavoro A Night at the Opera, i Queen sono andati avanti a forza di singole canzoni più che di album interi, a differenza di Led Zeppelin e Who, loro conterranei e contemporanei nella grande musica dei Settanta. Ma che canzoni! Ormai stampate indelebilmente nell’immaginario collettivo. Il film prende il nome dal loro brano più famoso e originale. E racconta bene la pervicace ostinazione del gruppo nel portare avanti una canzone difficile (sei minuti all’epoca erano una bestemmia radiofonica) fino a trasformarla nel più grande successo di tutti i tempi. Scritta nel 1975, Bohemian Rhapsody finì al numero uno in classifica, malgrado lo scetticismo di molti tra cui il produttore Ray Foster (interpretato da un irriconoscibile Mike Myers, uno che comunque aveva lavorato con i Pink Floyd di Dark Side of The Moon e quindi non si capisce il perché) e ritornò in vetta anni dopo, caso unico nella storia del rock. Canzone-chiave e canzone mondo.
In una scena fondamentale, il film mette a confronto vecchio (Foster) e nuovo (Queen) modo di intendere la musica. Da una parte la necessità di compiacere il pubblico, dall’altra quella di osare e comunque di piacere lo stesso. Alla fine, avranno ragione i giovani Queen ed è bellissimo che il film li racconti come una band unita, con quella chimica speciale che è sempre connaturata ai grandi successi, anche nella vita e non come il gruppo di Freddie Mercury. Che, a domanda precisa, risponde: “Non sono il leader dei Queen, sono il solista”.
Solista e solo, poi Freddie diventerà quando si risolve ad abbandonare il gruppo, incidendo per conto suo, ma senza ottenere i risultati di prima. E l’alchimia si riforma quando, messi da parte rivalità e dissapori, i Queen trionferanno come migliore set al Live Aid del 1985.
Il film poteva cadere in molte trappole retoriche, ma le evita abilmente, andando al nocciolo della questione (con tutto il successo e gli eccessi, Freddie è spesso un pesce fuor d’acqua), soffermandosi benissimo su quel momento magico in cui nascono le canzoni. Non solo “Bohemian”, ma anche “Another One Bites The Dust” con il suo riff di basso alla Chic, “We Will Rock You” che Brian volle per coinvolgere ancora di più il pubblico, “Under Pressure” con un magnifico David Bowie.
Brian Singer, regista di supereroi ma anche de I soliti sospetti, dirige con mano sicura, ricca di invenzioni visive, segue con la camera movimenti di palco e spostamenti di cuore. Riporta in primo piano la figura di Mary Austin, unica moglie, che fu davvero Love of my life di Mercury prima che scoprisse la sua omosessualità e anche dopo.
Rami Malek è un Freddie credibilissimo, parla, si muove, canta (quasi) come Mercury, senza tentare di imitare un modello impossibile, ma aggiungendovi personalità. Attori somiglianti e calati nella parte aumentano la magia, l’identificazione e l’effetto, ad un certo punto, è quello di essere ammessi e immersi nella vita reale dei Queen.
Bohemian Rhapsody è uno dei migliori film girati sul rock negli ultimi anni. E’un film che emoziona, commuove e diverte. Un po’ come hanno fatto i Queen con milioni di persone nella loro vita artistica. E che si ferma nel momento topico del successo riconquistato. Prima che, dopo la prematura morte di Freddie, i sopravvissuti non rovinassero tutto cercando di ricostruire la favola con voci non all’altezza della vera Regina. Paolo Redaelli