Gli Avvoltoi si alzano in volo per l’ultima volta. Vuoi non andarci? Si va. Al Covo di Bologna la band di Moreno Spirogi saluta (temporaneamente?) il suo pubblico con un’ esibizione carica di beat e di groove, iniettata di folle psichedelia anni Sessanta. I vultures felsinei partono dolcemente, con toni quasi di balera, insieme a Ugo Cappadonia e poi decollano e sembrano Stukas in picchiata quando JP Palazzino picchia duro sui tamburi e Michele Rizzoli tormenta le quattro corde del suo Fender, Matteo Cincopan che pare un Ray Davies giovane pizzica la chitarra con tutte le dita, senza plettro e Nicola Bagnoli (un Ray Charles a rovescio, stesse smorfie, ma ci vede bene ed è bianco) seduto ad un immondo hammond tira fuori sonorità alla Stevie Winwood. E infatti “I’m a Man” dello Spencer Davis Group in versione italiana lancia saette e fulmini su una audience che conosce a memoria le canzoni e già le canta in coro. Gli Avvoltoi sono demenziali come gli Skiantos, ma con una marcia in più, un’energia diversa. “L’avvoltoio è a torto considerato animale cattivo, ma si nutre di cadaveri e fa il suo dovere”, osserva Moreno Spirogi che della band è l’anima dagli anni Ottanta e nella band ci ha messo l’anima e forse è venuto il tempo di prendersi una pausa, perbacco. In questa formazione i rapaci mischiano Stooges e ZZ Top, Zombies e 13th Floor Elevators, spaccano e ipnotizzano la folla devota e plaudente. Musica con le gambe e con la testa, impossibile stare fermi al ritmo del beat primigenio di Kinks e Small Faces, quando Moreno muove le braccia a simulare il volo e la musica vola davvero alta, trascinata dai 300 cavalli della sezione ritmica. Moreno canta con voce quasi da ragazzino, è frontman e maestro di cerimonie, ogni tanto si rifugia nelle congas per dare sostanza al ritmo, sorride spesso e si agita, percosso dalla corrente elettrica che pervade la band dall’inizio alla fine, saluta tutti come si fosse ad una festa e infatti questa lo è, forse un ultimo valzer da ballare tutti insieme, agitandosi shakerati nel piccolo locale che contiene grandi emozioni. Verrebbe quasi una lacrima, ma la band la scaccia via pestando duro e concedendosi solo poche ballate, pescando da album mitici come Amagama del 2014 (che forse cita i Pink Floyd e forse è dialetto ugandese, non si può mai sapere) ma ha una copertina sixties con tanto di solarizzazioni bronzee.
Siamo lì sotto il palco, a ballare al suono di un ritmo irresistibile ed antico, che si spinge nel terzo millennio con le radici ben piantate nel secondo. E speriamo tutti che gli Avvoltoi ci ripensino, perché di una band come questa c’è bisogno in un secolo di plastica e tormentoni di Autotune, di vocalizzi esagerati e di poco, pochissimo cuore. Questa è musica che pulsa al ritmo della vita, imperfetta e deliziosa, è un motore di emozioni che non dovrebbe fermarsi mai.
Si chiude con “Sipario” conclusione perfetta per un set che ci ha portato avanti ed indietro nei decenni, fino al punto di non capire più dove siamo. E tutto ciò è molto bello.
Paolo Redaelli