Sabato 24 novembre, la Monash Gallery of Art ha aperto le porte a Robyn Stacey: as still as life, l’ultima mostra di una delle personalità artistiche maggiormente impegnate nella sperimentazione foto-mediale in Australia.
Fino al 3 marzo 2019, presso gli spazi della MGA sarà possibile intraprendere un percorso immersivo nell’affascinante e sempreverde universo delle nature morte, reinterpretate da Robyn Stacey attraverso una straordinaria combinazione di suggestioni che attingono tanto dalla storia dell’arte europea quanto da alcuni tratti specifici dell’identità storica australiana.
Curata da Anouska Phizacklea e dalla stessa Stacey, “As still as life” presenta oltre 20 opere provenienti da sei serie che hanno segnato gli ultimi 15 anni della carriera dell’artista originaria di Brisbane e da tempo legata professionalmente alla città di Sydney. Tutte le opere ad essere esibite presso gli spazi della galleria di Wheelers Hill sono stampe cromogeniche, unica eccezione fatta per una stampa lenticolare a doppia superficie. Quella della stampa cromogenica è una tecnica con la quale l’artista si misura sin dagli inizi della propria carriera: molte opere dalle prime serie della metà degli anni ’80, sono infatti, stampe in cibachrome, che all’epoca caratterizzarono fortemente le sperimentazioni fotografiche in Australia.
Il percorso previsto dal rationale della curatela di “As still as life” non catapulta però sin da subito lo spettatore nell’ampia sala principale in cui i lavori di Stacey sono esposti su pareti nere. Una prima sezione introduttiva della mostra è caratterizzata da un tracciato bianco e maggiormente sinuoso, presso cui sono esposte diverse opere di fotografe e fotografi australiani che si sono, negli anni, cimentati in una personale interpretazione del soggetto della natura morta. Quasi tutte provenienti dalla collezione della MGA, queste opere abbracciano circa un secolo di storia fotografica australiana, da Max Dupain e Olive Cotton alla fotografia postmoderna di Anne Zahalka, passando per alcuni grandi interpreti del genere documentario degli anni ’70 come David Moore.
L’opera di Robyn Stacey sembra quasi inglobare i tratti di ognuno di questi orientamenti estetici, caratterizzata come appare tanto dall’intensa saturazione cara ad un certo filone di ricerca digitale degli anni ’80 quanto dalla centralità dei chiaroscuri tipica delle fascinazioni moderniste per gli oggetti inanimati.
Ma l’attenzione dell’artista non si esaurisce nel solo confronto col medium fotografico. A fungere da fil rouge tra le opere qui presenti è il genere della natura morta, soggetto innanzitutto pittorico che l’artista ha studiato in alcune sue interpretazioni canoniche nello sviluppo dell’arte occidentale. In particolar modo, la pittura olandese del Secolo d’Oro echeggia nelle composizioni di Stacey, la quale ha spesso personalmente citato le nature morte barocche del 17esimo secolo tra le sue maggiori fonti di ispirazione. L’intera parabola artistica di Stacey è stata caratterizzata sin dagli inizi da una personale tendenza manieristica nei confronti non solo della pittura ma anche di altri media come il cinema, ben evidente delle atmosfere noir di certi suoi lavori risalenti alla metà degli anni ’80.
Come natura morta impone, il simbolismo evocato dalle composizioni dell’artista si esprime attraverso gruppi di oggetti in particolare. L’accento sull’importanza dello statuto oggettuale dei soggetti che veicolano il significato delle composizioni è posto dalla scelta curatoriale di imprimere sulle pareti un aforisma di Claude Lévi-Strauss che recita:
“Gli oggetti sono ciò che conta. Solo loro forniscono la prova che, attraverso i secoli, qualcosa è davvero accaduto tra gli esseri umani”.
Su ognuna delle pareti della sala si concentrano opere al cui centro dominano i diversi leitmotiv simbolici più o meno ricorrenti nella tradizione della natura morta. Frutta, vegetali, bicchieri, posate, e – in alcune – libri e teschi, classiche allegorie di morte e conoscenza.
Il fulcro della ricerca messa a punto dall’artista riguarda, però, tutti quegli elementi più apparentemente anonimi che animano le sue composizioni. Il fondamento logico comune a tutte le serie dell’artista dagli anni 2000 ad oggi è, infatti, figlio di un’analisi condotta dall’artista sul collezionismo e sull’impatto che esso ha avuto nelle narrazioni storiche che hanno forgiato l’identità nazionale attraverso l’accumulo di patrimonio materiale dalla seconda metà dell’ottocento.
All’inizio del nuovo millennio, appunto, Stacey ha cominciato a collaborare con musei e collezioni documentandone campioni ed esemplari. Così come le nature morte del Seicento olandese si componevano spesso di prodotti e merci provenienti dai traffici della Compagnia delle Indie orientali, così le collezioni storiche australiane narrano storie analoghe di colonialismo commerciale e non solo. L’ossessione positivista tipicamente ottocentesca per la classificazione delle meraviglie di un nuovo mondo selvaggio ed elusivo rispetto al razionalismo all’epoca imperante è ciò che ha generato molte delle collezioni che l’artista oggi riporta in vita.
Questo filone della ricerca di Stacey nasce della collaborazione con il Sydney Living Museums, consorzio di musei, giardini e dimore di rilevanza storica. Tra le collezioni principali di cui l’artista si è servita per il suo lavoro, quella del Macleay Museum, un tempo patrimonio personale di Sir William John Macleay ospitato presso l’iconica Elizabeth Bay House, la quale, tra gli anni 1880 e 1890, arrivò a contenere oltre 2.000 oggetti ed esemplari. Botanica, entomologia, tassidermia, sono, infatti, alcune delle tecniche e delle discipline che hanno promosso e sistematizzato il sapere scientifico in Australia all’epoca.
Attraverso la riconversione di queste collezioni, “Robyn Stacey: as still as life” offre, dunque, una finestra sulle possibilità che ha l’arte di intessere nuove relazioni tra il patrimonio materiale e la società che lo ospita, e che grazie anche ad esso impara a plasmare le proprie abitudini e la propria identità culturale.