“Sul mio epitaffio? Vorrei scrivessero che siamo stati davvero una band alternativa”
Scherza Robert Smith, anima, leader e cuore pulsante dei Cure alla domanda di un critico musicale. Ma cosa si intende con il termine “alternativo”?
Ormai è un termine a dir poco esarcebato dal suo significato, lo troviamo dappertutto, come le zanzare, quando non si sa bene come definire una band anche in ambito strettamente pop ci si schiaccia sopra l’etichetta di alternativo, tanto per renderla interessante.
Ovviamente le cose non sono così facili e come spesso accade in ambito musicale, nel corso degli anni si sono esaurite le parole per cercare di imbrigliare l’istinto creativo e artistico anche quando non c’è davvero bisogno ed ecco perchè un termine così forte scade nell’ovvietà, anche se a pronunciarlo è una delle più eclettiche, strane e profonde creature della musica di tutti i tempi.
Tuttavia, non c’è un termine migliore per spiegare i Cure. Le prima formazione risale al 1976 con il nome di “Easy Cure” e nasce in un mondo dominato dai Led Zeppelin, dai Deep Purple e dal “progressive” in Inghilterra e dalle liriche proletarie e impegnate di un certo Bruce Springsteen oltre oceano. Come potevano trovare una nicchia artistica questi giovani ragazzi della campagna inglese se non percorrendo una strada alternativa a quella reale?
Qui entra in gioco la figura determinante di Robert Smith, unico membro fisso del gruppo che nell’arco della sua lunga carriera ha mutato pelle innumerevoli volte. E’ il 1979 e esce Three Imaginary Boys, primo disco dei Cure. I suoni sono leggeri e minimali, i testi impegnati e letterari, è in questo album il famoso singolo “Killing an Arab”, che prende spunto da “L’Etranger” di Camus. Poco dopo esce “Seventeen Seconds” più cupo, criptico e oscuro. Nel 1980 invece esce “Faith”, terzo disco della band e quasi contemporaneamente viene fatto uscire “Boys don’t Cry”, la ristampa con qualche aggiustamento di Three Imaginary Boys, per il mercato americano. Proprio il singolo “Boys don’t Cry” rappresenta la prima vera mutazione di Smith. Il pezzo infatti, non suona come niente prodotto dal gruppo fino a quel momento. I toni cupi sono lontani, c’è quasi un senso di spensieratezza in una canzone che per certi versi è “simile ad una hit anni ’60”, come ammetterà poi lo stesso Smith. Ormai i Cure hanno trovato comunque una loro dimensione e gira intorno alla carismatica figura del suo leader. Nel 1982 esce “Pornography” il primo vero capolavoro della band. Si sentono le influenze dei Joy Division e lo stile del gruppo diventa più orecchiabile e soprattutto riconoscibile. Pornography è un marchio di fabbrica, appena lo si mette su, si ha la chiara sensazione di ascoltare qualcosa di unico dai primissimi secondi. Nel frattempo continuano gli avvicendamenti all’interno del gruppo e cominciano i primi veri dissidi che porteranno Smith a un periodo di abuso di droghe e alcool che lo allontaneranno momentamente dai Cure ma non dalla musica, in quel periodo infatti collabora assiduamente con i Siouxsie and the Banshees in veste di chitarrista e compositore. Nell’arco di quattro anni escono: “The Top”, “The Head on the Floor” e “Kiss me Kiss me Kiss me”, ma è con “Disintegration” del 1989 che il gruppo ritrova la sua armonia intrinseca e un Robert Smith più ispirato che mai. Disintegration è un capolavoro assoluto, forse l’apice della scrittura di Smith. Le composizioni sono lunghe, arrangiate alla perfezione e unite fra loro non creano un disco ma un film musicale, un’opera teatrale. Da questo punto in poi è tutto in discesa e i Cure continuano a produrre ed andare in tour senza le pulsioni frenetiche dei primi tempi a favore di una sinergia artistica duratura che accomuna tutti i membri dentro e fuori il palcoscenico. Seguono “Wish”,”Wild Mood Swings”,”Bloodflowers”, “The Cure” e “4:13”, ultimo lavoro in studio. Fin qui, la band londinese non ha sbagliato nulla e anche se Smith decide di smetterla con la produzione di nuovo materiale per preservare (a ragione) la sua creatura intatta, continuano i loro concerti e le loro tournee. I Cure non sono semplicemente un gruppo, ma si impongono come fautori di un’idea artistica, di un mondo che si interconnette inevitabilmente con altre realtà, con altri gruppi e con i fan in un vortice passionale e unico nel suo genere.
Non è una novità scrivere del rapporto speciale che lega Smith e Tim Burton ad esempio. I due, oltre a collaborare sporadicamente, sono facce della stessa medaglia e per questo legati da qualcosa di indissolubile. Lo stesso nervo artistico, la stessa visione, una cinematografica e una musicale.
Non è una novità neanche che Smith è stato per larghissimo tempo chitarrista e compositore per i Siouxsie and the Banshees, l’altra grande band esponente della new wave inglese. In ultimo non è un caso che Smith fosse un amante del lavoro di Bowie e di Ian Curtis e che abbia avuto la possibilità di collaborare con entrambi e di influenzare e farsi influenzare.
Siamo di fronte ad una ragnatela che lega tutti gli eventi insieme priva di strappi e che crea un arazzo artistico senza sbavature.
Per questo motivo vedere la band inglese esibirsi rimane un’esperienza unica e che racchiude in sè il potere intellettuale di 42 anni di esibizioni, di dischi e di storie.
Finalmente sta per partire un tour che spingerà Smith e soci fino in Italia, il prossimo 16 Giugno al Firenze Rocks, in una settimana di musica costellata da grandi nomi.
Noi ci saremo, per sentirci assorbiti, per ascoltare ma soprattutto per rubare un pezzo di quel quadro che sono i Cure, così unici e così diversi da tutto quello che potete ascoltare in una vita intera; perchè le cose meravigliose sono rare e fugaci e lasciano forse solo il tempo di un concerto per essere effimeramente assaporate.