Matt Bianco al Bravo Caffè di Bologna: la semplicità jazz che diverte

Matt Bianco, o della semplicità jazz. Al Bravo Caffè di Bologna, in due date sold out la band di Mark Reilly dà spettacolo, diverte ed entusiasma il pubblico con un set di grande musica, professionisti allenati che accompagnano un cantante crooner con lo swing nel sangue. Non c’è più la funambolica vocalist polacca Basia Trzetrzelewska, con il suo scat insuperabile, e nemmeno il tastierista Danny White, ma Reilly se la cava benissimo tra nuovo e vecchio repertorio. Del primo disco dell’85, quello che in qualche modo dette il via al movimento acid-jazz, ci sono tracce come “Whose Side Are You On?” dove i saliscendi vocali sono sostituiti da soli di tromba e flicorno (Martin Shaw) e sax (Dave O’Higgins), una “More Than I Can Bear” confidenziale ma non ruffiana, una “Half a minute” che esalta il lato del samba jazz del gruppo, la galoppante “Get Out of Your Lazy Bed” che è proprio un invito a schizzare dal letto. Manca “Sneakin’Out the Backdoor”, ma non si può avere tutto.

Stretti stretti sul piccolo palco del club, i sette scatenano emozioni, ricordi, buone vibrazioni e voglia di ballare. Se non ci fossero i tavolini e le sedie, probabilmente, saremmo tutti in pista. Shaw e O’Higgins e sono una vera macchina da guerra, affiatati, leggeri e potenti quando serve, la sezione ritmica formata da Sebastian De Kroom (batteria) e Geoff Gascoyne (basso) pompa a meraviglia (“come ciclisti gregari in fuga” direbbe il Conte), alle tastiere Graham Harvey punteggia e sostiene un sound corposo e serpentino.

“Joyride”, “Paradise” e l’inedita “Under The Moonlight” riportano direttamente agli anni Quaranta, le big band di Glenn Miller e Xavier Cugat aleggiano benevole su questa formazione ben costruita, la vocalist Elisabeth Antwi fa il suo dovere e qualcosa di più, anche se Basia ci portava davvero su un’altro pianeta. Matt Bianco 2018 suona bene ancora più di trent’anni dopo, ripulito dall’elettronica delle origini, vicino all’essenza del jazz caldo pre-bop, niente assoli ma brevissimi break (tranne quando De Kroom si prende la scena, mandando in visibilio, ma ci sta), ascolto reciproco, sorrisi e interplay, rimandi all’epoca d’oro di una musica che resta senza tempo. Un dopocena all’altezza del menu.

Paolo Redaelli

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